Sull’autonomia del Nord e sulla richiesta di tre regioni a statuto ordinario – Lombardia, Veneto, Emilia Romagna – di maggiori poteri legislativi continuano a versarsi fiumi d’inchiostro. E come spesso capita in Italia, a seconda delle convenienze, nella quadriglia politica che da sempre caratterizza il nostro paese, le parti si invertono. Oggi, ad esempio, a richiamarsi all’Europa – a parte il partitello boniniano che nella bandiera europea avvolge la nullità delle idee e dei programmi nonché l’ambizione di piccoli leader restii alla pensione – sono gli eredi dei più feroci oppositori del MEC – penso a un vecchio pamphlet antieuropeo di Giancarlo Pajetta.
La storia si ripete. Sui finanziamenti attribuiti alle regioni per le nuove competenze non si sono pronunciate le sinistre, peraltro unanimi nel denunciare il pericolo di un’Italia che rischia di andare in pezzi. “Almeno riguardo al Partito democratico”, ha scritto Giovanni Belardelli, l’imbarazzato silenzio “dipende probabilmente dal fatto che i primi passi sulla strada dell’autonomia differenziata sono stati compiuti da governi di centro-sinistra”. E come ha opportunamente ricordato Ernesto Galli della Loggia, l’approvazione della riforma dell’articolo V della Costituzione fu “voluta a suo tempo da un centrosinistra vile disposto a tutto nell’illusione di poter in tal modo guadagnarsi un futuro”. Per la verità, trovo tutt’altro che infondati e pretestuosi gli argomenti contro le proposte dei Tre Governatori d’assalto avanzate da giuristi e scienziati politici come Gianfranco Viesti, Mauro Calise, Michele Ainis, Massimo Villone e altri, che parlano di “secessione dei ricchi”. Inoltre, confesso che mi lascia molto perplesso il concetto di “residuo fiscale”, per cui “le regioni a più alto reddito trattengono una parte maggiore delle tasse raccolte nel proprio territorio, sottraendola alla fiscalità nazionale”, e ancora più perplesso il deficit democratico degli accordi in corso. Gianfranco Viesti, nel suo contestato saggio “Verso la secessione dei ricchi?” (Edizioni Laterza, scaricabile gratuitamente in pdf), scrive:
“Il percorso attuativo dell’autonomia differenziata prevede (…) che il Governo concluda un’Intesa con ciascuna delle regioni che ne hanno fatto richiesta. Tale Intesa viene poi sottoposta alle Camere. Esse non hanno possibilità di emendarla. Né hanno la possibilità di entrare nel merito dei suoi contenuti ed esprimere indirizzi. Possono approvarle, con un voto a maggioranza degli aventi diritto, o respingerle. Voto che può naturalmente essere influenzato da considerazioni contingenti di natura strettamente politica. Se le Intese sono approvate dal Parlamento, tutto il potere di definizione degli specifici contenuti normativi e finanziari del trasferimento di competenze e risorse è demandato a Commissioni paritetiche Stato-Regione, sottratte a qualsiasi controllo parlamentare. Non è possibile tornare indietro, per dieci anni. Queste decisioni non possono essere oggetto di referendum abrogativo. Parlamento e Governo non possono modificarle se non con il consenso delle regioni interessate; ed è assai difficile immaginare che esse, una volta ottenute competenze, risorse, personale, accettino di tornare indietro. Si può solo immaginare che la Corte Costituzionale verrebbe chiamata ad esprimersi su moltissimi aspetti di conflitto fra quanto viene deciso e i principi fondamentali della Repubblica, aprendo così anche una lunga stagione di incertezza normativa. Le regioni a statuto ordinario e ad autonomia differenziata godrebbero di un potete di interdizione di qualsiasi iniziativa statale persino superiore a quello delle regioni a statuto speciale. Governo, Parlamento e cittadini italiani sarebbero privati di qualsiasi potere d’iniziativa. Una vera e
propria secessione”.
So bene che dalla parte del Governatore Luca Zaia (il più attivo e combattivo degli autonomisti) si sono schierati altrettanti giuristi, economisti, commentatori politici autorevoli – cito per tutti Paolo Becchi. E anche su Atlantico si è letto un appassionato articolo di Roberto Penna, a sostegno della tesi che le autonomie regionali sono “un’opportunità da cogliere, insieme a una riforma costituzionale per un governo più stabile e autorevole”.
Non sono un giurista, né un economista ma avendo fatto per una vita il mestiere di storico delle dottrine politiche, vorrei chiarire due o tre cosucce. Innanzitutto, non c’è un nesso stretto tra liberalismo e autonomie. Contrariamente a quel che sosteneva Norberto Bobbio quando ne scriveva, il federalismo non nasce dai lombi del liberalismo ma da quelli della democrazia: esso pone l’accento sulla partecipazione e sulla vicinanza dei governati ai governanti e sul controllo dell’operato di questi ultimi ritenuto più agevole ai livelli locali. Il liberalismo, invece, non guarda al chi governa e su quale territorio governa, ma ai limiti che i diritti del cittadino pongono ai legislatori. Devolvere i poteri del prefetto e del questore a un alto funzionario regionale garantisce solo che l’eventuale oppressore sia “uno di noi”.
In secondo luogo, va spiegato perché non pochi liberali (non solo italiani) erano ferocemente antiregionalisti. Non mi riferisco solo a Giovanni Malagodi – su cui ha scritto Giovanni Orsina – ma anche a Benedetto Croce, che nel suo celebre Discorso all’Assemblea Costituente del 1947 esaltava la “fulgida idea dell’unità che Giuseppe Mazzini accolse dal pensiero di Niccolò Machiavelli” e giudicava pauroso “il favoreggiamento e l’istigazione al regionalismo, l’avviamento che ora si è preso verso un vertiginoso sconvolgimento del nostro ordinamento statale e amministrativo, andando incontro all’ignoto con complicate e
inisperimentate istituzioni regionali”.
Forse il vecchio filosofo aveva torto (ma allora Pietro Nenni, Palmiro Togliatti, Francesco Saverio Nitti condividevano le sue posizioni), ma certo è, e veniamo al terzo punto, che la morte della patria e il tramonto dello stato nazionale ci hanno fatto perdere il senso di ciò che ha significato il Risorgimento come fondazione di una nuova etica pubblica.
In estrema sintesi, la “costruzione della nazione”, che seguì a quella dello Stato, volle essere la messa in comune dell’immenso e diseguale patrimonio culturale, artistico, paesaggistico dell’Italia “geografica”. Un progetto generoso che trovò nel libro “Cuore” di Edmondo De Amicis (non a caso denigrato da cattolici, fascisti e marxisti – si pensi alla gratuita ironia di Umberto Eco) il suo più alto e popolare documento spirituale. In base a quel progetto, fiumi, città, monti, mari, campagne della penisola erano res communis di tutti gli Italiani. Firenze non era dei fiorentini, né Roma dei romani, né Venezia dei veneziani ma fiorentini, romani e veneziani diventavano amministratori delle loro città per conto dei legittimi proprietari, ovvero dei loro connazionali tutti – dalle Alpi a Pantelleria.
In questa ottica, se vedo che una città o un paese, in cui non risiedo, è amministrato male, non trovandomi “in casa d’altri” ma a “casa mia”, ho tutto il diritto di protestare contro chi ha fatto del centro storico di Firenze un enorme suk e ha curato così poco il fragile territorio della bellissima Liguria da esporla a inondazioni e a mareggiate devastanti (per la cronaca, le responsabilità delle amministrazioni di sinistra non sono trascurabili).
“Ogni popolo – scriveva Carlo Cattaneo nel 1855 – può avere molti interessi da trattare in comune con altri popoli; ma vi sono interessi che può trattare egli solo, perché egli solo li sente, perché egli solo li intende”. È vero, ma nell’ottica della nazione, se si ha il dovere di prendere in seria considerazione gli interessi delle parti, è l’intero poi che deve stabilire la misura del loro riconoscimento.
Mi rendo conto che sto parlando di un’altra epoca e di un altro pianeta ma in un dibattito pubblico sulle autonomie non si può eludere il problema cruciale: cosa ne vogliamo fare dell’Italia?