Il martedì di Capaneo, a Dio spiacente e a li nimici suiSpeciali

Il martedì di Capaneo – Destra e sinistra nel crepuscolo dello stato nazionale: un pericoloso incubo

Il martedì di Capaneo, a Dio spiacente e a li nimici sui / Speciali

Da tempo immemorabile “destra” e “sinistra” vengono considerate categorie vuote che non descrivono più nulla e che stanno alla realtà sociale e política sempre più complessa del mondo contemporaneo come le diligenze stanno ai treni eurocity. La battuta spesso citata del filosofo radicale Alain – che scriveva, settant’anni fa, che a dire “destra e sinistra non hanno alcun senso” poteva essere solo un uomo di destra – oggi non troverebbe d’accordo nessuno. In effetti il discredito di cui è oggetto la dicotomia che un tempo assorbiva tutto il politico, è per molti aspetti giustificata, se si pensa che gli studiosi (storici, scienziati politici, filosofi) che ne hanno trattato, quasi sempre non hanno descritto valori, atteggiamenti, visioni del mondo empiricamente rilevabili, ma hanno espresso sentimenti di ostilità legittimi, quanto si vuole, ma che non aiutavano certo a conoscere gli avversari ideologici. Tipico il caso di Norberto Bobbio, che in un ormai vecchio saggio su “Destra e sinistra” (Donzelli) vedeva nella sinistra la filosofia dell’eguaglianza e nella destra la giustificazione di ogni sopraffazione e discriminazione nei confronti di individui, di classi, di etnie considerati “inferiori”. Il libretto ebbe un grande successo giacché confermava una parte politica nei suoi pregiudizi e nella coscienza della sua superiorità etica e spirituale ma non faceva capire come mai uomini di elevato sentire avessero potuto militare nelle file di movimenti conservatori, se non fascisti.

In realtà, nell’area euro-atlantica in cui il “pluralismo” sembra aver avuto partita vinta su ogni forma e specie di dogmatismo, non si è presa sul serio la lezione del grande Isaiah Berlin sulla molteplicità dei valori e sul fatto che non si possono sempre comporre e metterli in fila ordinata come le ciliege che ognuna tira l’altra. La tragedia della condizione umana è proprio quella che aveva scolpito per sempre Sofocle nella sua Antigone (e che Hegel aveva compreso a fondo): sia Creonte che Antigone avevano le loro “buone ragioni”, ma i codici di riferimento risultavano incompatibili. Creonte è colui che tutela il “particolare”, la città irriducibile e diversa dalle altre, la cui identità specifica viene avvertita come un bene irrinunciabile in quanto garante della vita della comunità politica – come si potrebbero estrarre risorse e chiedere sacrifici ai cittadini se, ad esempio, in una guerra
tra Atene e Lacedemone, i primi fossero indifferenti alla vittoria dei secondi e disposti a divenirne sudditi?

Antigone è colei che ricorda che non si può propter vitam, vivendi perdere causas: ci sono leggi non scritte di umanità che riguardano tutti gli uomini, è il preannuncio, laico e pagano, del messaggio di Paolo (“non ci sono più greci ed ebrei, romani ed egiziani” etc…). È la la dialettica tra la comunità (Gemeinschaft) e la società (Gesellschaft), tra l’unico e l’universale, di cui scriveva Jacob L. Talmon, tra la destra e la sinistra, appunto. Non a caso a simboleggiare la prima è l’albero (con le sue radici che affondano nel terreno della storia) e a simboleggiare la seconda non è una cosa ma un’azione: la rottura delle catene, una metafora che troviamo in Rousseau e in Marx.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, due grandi “principi dello spirito” delle lettere italiane, Benedetto Croce e Federico Chabod, avvertirono in maniera lacerante che la loro comunità politica – la nazione italiana – sarebbe stata sconfitta e che questo avrebbe significato la fine di una tradizione, di una storia, “la morte della patria” di cui si sentivano figli; ma, d’altra parte, sapevano bene che il regime fascista stava mettendo in pericolo ideali più alti – di libertà, di dignità, di umanità – che andavano difesi a qualsiasi costo: anche a costo di passare sul cadavere dell’amato genitore. Oggi l’evocazione del loro dramma sarebbe incomprensibile. L’universalismo individualistico dei diritti (l’illuminismo francese dei Voltaire, Diderot etc.) e l’universalismo individualistico degli interessi (l’illuminismo inglese di Adam Smith e della sua scuola) hanno azzerato la dimensione della politica – in balia ormai del diritto e dell’economia che non conoscono frontiere – e il destino dello “stato nazionale” che per secoli è stato il verbum della comunità politica che si è fatto carne vivente, sembra non stare a cuore più a nessuno. Croce e Chabod si dolevano per un fantasma che ormai serve solo a intralciare, con i suoi rancori e i suoi pregiudizi, la marcia trionfale verso l’unificazione kantiana del genere umano. A chi scrive “Il mondo è la tua patria” cosa possono interessare le preoccupazioni di quanti sono profondamente sconvolti dalla scomparsa di paesaggi materiali e spirituali cari e amati, irreparabilmente corrosi dalla globalizzazione che avanza?

Eppure, le cose non sono così semplici. Il tramonto dello stato nazionale – in cui oggi si compendia il crepuscolo dell’Occidente – toglie ai valori, che in passato si combattevano in modi spesso violenti, la terra sotto i piedi, la loro arena istituzionale. Se non c’è più una comunità da preservare dalle tempeste della storia, la destra non può inalberare il vessillo di “una d’armi, di lingua, d’altare di memorie di sangue e di suol”, ma diventa la difesa di una “tana”, il refugium delle vittime di una globalizzazione che mette completamente a soqquadro borghi e quartieri – non è un caso che, in Italia, un leghista possa trasformarsi in uno (pseudo)nazionalista. D’altra parte, la sinistra, venendo meno il quadro nazionale che rendeva possibile il welfare, trova nell’universalismo dei diritti, con le benedizioni della Dea Eguaglianza, nuove risorse elettorali (a garantire i voti saranno non più i vecchi quartieri operai ma le migliaia di migranti ai quali si vogliono assicurare gli stessi diritti degli altri, a cominciare dalla cittadinanza politica). Per i soliti clercs, lo scontro, che la fine dello stato nazionale lascia prevedere, tra mondialisti e nazionalisti, è l’esaltante avvenire che ci attende. Per me, è un incubo giacché, ancora una volta, si riproporrà quella divisione tra i dannati e gli eletti che tanto sangue ha fatto versare nelle nostre contrade. Ma tant’è, per molti, dal Fatto quotidiano al Foglio, finché c’è guerra (civile) c’è speranza!