Il martedì di Capaneo, a Dio spiacente e a li nimici suiSpeciali

Il martedì di Capaneo – La scomparsa del tragico vera tragedia del nostro tempo: i rischi del liquidare l’idea di nazione

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Il martedì di Capaneo, a Dio spiacente e a li nimici sui / Speciali

Sabato scorso, al Convegno annuale sulle due culture, “Sapiens… e oltre”, organizzato ad Ariano Irpino dalla prestigiosa Fondazione Biogem presieduta da Ortensio Zecchino, si è svolta una interessante tavola rotonda sul tema “Diritto, Stato e Politica nel postumanesimo”. Vi hanno partecipato tre studiosi di indubbio valore, Michel Troper (Università Paris-Nanterre), Cesare Pinelli (Università di Roma “La Sapienza”) Cesare Salvi (Link Campus University) coordinati da Francesco Di Donato (Università degli Studi di Napoli Parthenope). C’erano tutte le premesse per un confronto utile e costruttivo sui massimi problemi politici del nostro tempo ma, nonostante le domande mirate del coordinatore – uno storico delle istituzioni politiche autore di ponderose ricerche sulla genesi e sulla natura dello stato moderno – la crisi dello Stato e del suo diritto positivo, sempre più sottomesso a norme costituzionali interne e internazionali che ne limitano le pretese, è rimasta avvolta in un cono d’ombra. I soliti rilievi sulla fine dei “grandi racconti” e sul tramonto della politica, pur pertinenti, hanno richiamato alla mente quanto scriveva Tocqueville che, per comprendere le svolte epocali della storia, occorre una scienza nuova, di cui gli storici del diritto e i giuristi non sembrano ancora disporre. O, forse, sarebbe meglio parlare della necessità di tornare a una scienza antica e dimenticata.

Se dovessi azzardare una spiegazione sulle ragioni per le quali oggi anche gli intellettuali meno superficiali brancolano nel buio dinanzi alle trasformazioni sociali e politiche in atto, le sintetizzerei nell’eliminazione della dimensione tragica della vita. Spiego in che senso. Il conflitto insanabile tra Creonte e Antigone nella tragedia di Sofocle (442 a.C.), stava nel fatto che ad affrontarsi, come aveva rilevato genialmente Hegel, erano due ragioni, non una ragione e un torto. Da una parte, le leggi della città, cui si doveva obbedienza se la comunità politica voleva salvaguardare la propria identità e difendere i suoi confini e le sue norme; dall’altra, la morale che in nome della pietas parentale dell’eroina faceva appello a leggi non scritte (gli agrafoi nomoi), impresse dagli dei nel cuore degli uomini. Sofocle invitava a riflettere sulla tragicità della condizione umana: la pluriappartenenza – nella quale il teorico per antonomasia del pluralismo liberale, Isaiah Berlin, vedeva, in sostanza, il fondamento delle “libertà dei moderni” – fa sì che gli individui siano soggetti a codici diversi, a valori sovente in conflitto, a scelte laceranti, giacché le cose buone non vanno sempre insieme e, come la via dell’Inferno è lastricata di buone intenzioni, così la via del Paradiso è spesso raggiungibile solo se, nell’agire, non si hanno troppi scrupoli (Talleyrand chiamava “errori” le infamie commesse dal potere che non servivano a rafforzarlo).

La tragedia finisce quando sul palcoscenico dell’esistenza individuale e collettiva non si combattono più due ragioni, ma una ragione e un torto: Creonte diviene allora il male morale tout court e Antigone l’incarnazione del bene. Paradossalmente quando ciò si verifica non assistiamo al venir meno della violenza nei rapporti umani ma a una violenza di gran lunga superiore a quella erogata in una guerra in cui, da una parte e d’altra, si combatte per una “causa” alla quale non può non riconoscersi eguale dignità e legittimità. Le truppe di Federico II che invadevano la Slesia, sottraendola a Maria Teresa, non pensavano di averne avuto l’incarico dal Welgeist e quelle che ad esse si opponevano non credevano che il dominio storico sulla Slesia appartenesse agli Asburgo per diritto naturale.

Questa filosofia classica sopravvisse in tutto l’Ottocento, nonostante che le armate dalla Rivoluzione francese avessero restaurato e laicizzato, per qualche tempo, il medievale “spirito di crociata” che divideva il mondo tra cristiani e infedeli – dove gli “infedeli”, dopo l’89, erano popoli e governi non ancora emancipati dai lumi e, pertanto, vittime della superstizione religiosa, della servitù politica, dell’ignoranza programmata dai potenti.

Il liberalismo, in particolare, lungi dall’essere la dottrina dei “diritti astratti”, come ha sostenuto nel convegno Cesare Pinelli, era una complessa teorica che teneva uniti, con immane e improba fatica, economia e diritto, politica e religione, cercando sempre di bilanciare le esigenze di una sfera con quella delle altre. I classici francesi, inglesi, nordamericani, italiani del liberalismo si preoccupavano delle libertà dei cittadini (che giustamente ritenevano inseparabili dalla proprietà e condizione di una prospera economia di mercato) ma, insieme, sapevano che i diritti” potevano essere efficacemente tutelati solo da uno Stato forte, rispettato, la cui tutela non sempre consentiva di salvare morale e politica, kratos ed ethos. Una guerra per la difesa della patria, ad esempio, poteva ben sacrificare quel diritto alla vita che, per John Locke, assieme alla libertà e alla proprietà, giustificava l’uscita degli uomini dallo stato di natura.

Quando Cesare Salvi sostiene che non esiste “interesse nazionale” giacché ci sono soltanto classi sociali che perseguono finalità diverse e incompatibili, Creonte perde ogni dignità etica e la sua sopravvivenza è quella di Mister Hyde, alla ricerca di vittime umane da sacrificare al Moloch di cartapesta dietro cui si nascondono i poteri reali che danno la forma al mondo (finanza internazionale, capitalismo etc.). Per il marxista esistono solo gli “interessi” delle classi sociali come per i neo-universalisti etici esistono solo i “diritti” degli individui: gli uni e gli altri indipendenti dallo spazio, dal tempo, dai luoghi storici in cui chiedono di esser fatti valere.

È davvero un’intera stagione dello spirito umano che si chiude. Il condominio politico viene cancellato: ogni preoccupazione per mantenere l’edificio in buono stato, le tubature sotto controllo, l’ascensore sicuro, le scale pulite, le cantine al riparo dalle inondazioni, il tetto in grado di resistere alle tempeste e ai fulmini etc. etc. scompare dall’orizzonte del giurista. Quello che conta sono i condòmini e l’ineguaglianza delle posizioni in cui essi si trovano e che esige atti concreti di giustizia riparativa. Non c’è nessun “interesse comune” a “tenere la casa in ordine” giacché ogni miglioria ricade unicamente a beneficio di qualcuno e non di tutti.

Che fossero conservatori o progressisti, le classi dirigenti dell’Ottocento sapevano, invece, che senza istituzioni pubbliche forti e rispettate, senza un apparato amministrativo imparziale e in grado di far valere le regole, senza infrastrutture che fossero le vene del corpo vivente della nazione, senza scuole, senza acquedotti e, last but not least, senza il senso e l’orgoglio dell’appartenenza, nessun partito, nessuna classe sociale, nessuna regione o località avrebbe avuto un avvenire. Un partito socialista una volta entrato nella stanza dei bottoni ovvero al timone di una nave sgangherata, lungi dal rendere giustizia ai condomini meno agiati, avrebbe contribuito, sovvertendo i vecchi equilibri politici e sociali, a far vivere tutti peggio. I socialdemocratici francesi, inglesi, tedeschi, italiani lo avevano compreso molto bene: chi più chi meno tutti intendevano appunto lasciare alla classe operaia, erede del mondo borghese, la “casa in ordine” e, pertanto, all’occorrenza non esitavano a gareggiare in patriottismo con i partiti liberali e conservatori (anche in Italia si dovrà prima o poi scrivere un saggio storico sui socialisti “nazionali” e risorgimentisti, di cui si è persa la memoria storica, dopo l’ultimo tentativo di Bettino Craxi di recuperare il senso di un socialismo patriottico).

 Il “mondo di ieri” sembra davvero scomparso per sempre. La crisi della “politica”, a ben riflettere, è la retrocessione della “ragion di Stato” a un bieco fantasma che si oppone a quel “diritto senza frontiere” che non conosce spazi politici che siano nostri e non anche loro, responsabilità specifiche verso chi fa parte di una comunità storica. Dal “tutto il potere al popolo” siamo passati – dal momento che il popolo è sordo a ogni idealità ed è indifferente alla responsabilità verso l’intero genere umano, richiamata dal diritto cosmopolitico da Bergoglio, dall’universalismo di ogni colore – a “tutto il potere ad Antigone”, anche se l’eroina non può contare su nessun consenso di massa.

Senonché un mondo in cui si sta o con Creonte (soffocando l’umanissima e cristiana “misericordia”) o con Antigone (fascistizzando chi si batte pro aris et focis) è un mondo in cui non ci sono più “dilemmi etici” ma solo bande armate che, nello sterminio (talora non soltanto metaforico) di chi la pensa diversamente in ordine alle questioni decisive dell’etica e della politica, vedono un dovere ineludibile. Dimenticare, però, che “il mondo è pieno di dei” significa evocare il terrorismo dell’unico Dio che non tollera chi si rifiuta di riconoscerlo.

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