Nella sua ultima metamorfosi, la “cultura della resa” si riscopre liberale, garantista, fedele alla lezione di Montesquieu e alla sua (supposta) separazione dei poteri. Un giurista onnipresente sulla stampa quotidiana ed elevato dal Foglio a Ninfa Egeria dello schieramento progressista italiano, in un suo recente articolo, sul Corriere della Sera, ha visto in Alcide De Gasperi, “un esempio di capacità politica e di misura nell’amministrare”. Pensavamo che il professore appartenesse all’area politico-culturale che aveva salutato nella fine del centrismo degasperiano l’alba del riscatto del paese dal fascismo e dal clerico-fascismo democristiano e invece ci eravamo sbagliati. Il grande politico trentino non avrebbe nulla a che vedere con la political culture della classe dirigente che nell’immediato secondo Dopoguerra ricostruì l’Italia, con ricette liberali in economia e di tutela della legge e dell’ordine, in politica interna (v. il famigerato Mario Scelba). Forse occorre pensare a qualche monumento che lo immortali nel marmo assieme a Giorgio La Pira e a Giuseppe Dossetti – che, nel saggio di Paolo Grossi, “Costituzionalismi tra ‘moderno’ e ‘pos-moderno’ [sic!]. Tre lezioni suor-orsoliane” (Editoriale Scientifica) sono i più importanti e citati autori della Costituzione italiana (assieme naturalmente a Palmiro Togliatti e a Lelio Basso). “L’alleanza tra marxisti e cattolici”, col suo richiamo al fattuale contro le astrazioni del costituzionalismo borghese ottocentesco, spiega il celebratissimo docente fiorentino, “aveva il significato di non sterilizzare la Costituzione entro un lucente cristallo e di immergerla invece nel contatto impuro con la fangosità dei fatti (che è la fangosità della storia)”.
L’antropofagia ideologica – ovvero l’appropriazione da parte degli eredi dei nemici di ieri di quanto di “buono” e di “giusto” c’era nel campo d’Agramente – sarebbe positiva se non nascesse dal disegno di superare i conflitti etico-politici del passato in nome dell’union sacrée di tutte le forze politiche sane contro le forme assunte oggi dall’Ur-Faschismus (per citare il più colto e divertente dei “chierici traditori”, Umberto Eco). Viene in mente una vecchia storiella ambientata nella Spagna subito dopo la caduta di Francisco Franco. Sentendo il leader comunista, Santiago Carrillo, esaltare l’ordine, la Chiesa, la Monarchia, un vecchio militante non riuscì a trattenersi: “Companero Carrillo, lascia qualcosa a Fraga Iribarne!”.
A forza di leggere le catilinarie dell’intellighentzia progressista contro l’autoritarismo di Matteo Salvini, sempre invitato a leggersi i classici del liberalismo da lui ignorati, ci si chiede: ci sarà qualche valore forte lasciato a chi non la pensa come Gustavo Zagrebelsky, Sabino Cassese, Paolo Grossi, Michele Ainis etc. e che spesso non si riconosce neppure nel cosiddetto “sovranismo” neoleghista? È divenuto ormai rituale, nei candidati al ruolo di salvatore della patria, il richiamo a Montesquieu ma chi boccia Salvini all’esame di storia delle dottrine e delle istituzioni politiche, ha davvero letto “Lo spirito delle leggi”? Recensendo, su Il Foglio d’antan, il saggio di Domenico Fisichella “Montesquieu e il governo moderato” (Ed. Carocci), Giuseppe Bedeschi – v. l’articolo del 24 novembre 2009, “La lezione di Montesquieu sui limiti ai magistrati” – sfatava uno dei luoghi comuni più accreditati della demi culture:
“Montesquieu non solo non annovera il giudiziario fra i poteri fondamentali della monarchia, ma tutti i suoi sforzi sono diretti a porgli dei limiti ben precisi, affinché esso non debordi e non leda i diritti dei cittadini e le prerogative della sfera politica. Il potere giudiziario, dice il pensatore francese, non deve essere attribuito a un senato permanente, ma deve essere esercitato da persone scelte fra il popolo, in determinati periodi dell’anno, secondo la maniera prescritta dalla legge, per formare un tribunale il quale rimanga in vita soltanto per il periodo che la necessità richiede”.
Ritengo scontato il diritto ad avere valori diversi e a fondare su di essi progetti politici che ripropongano la più classica (e, a mio avviso, insuperata) dicotomia politica, quella tra “destra” e “sinistra”: quello che non potrò mai accettare è l’uso politico dei classici, con la relativa accusa rivolta agli avversari di non conoscere la “grammatica del costituzionalismo”. Per Sabino Cassese – v. l’articolo “Una democrazia moderna non può che essere liberale”, Corriere della Sera del 9 luglio u.s. – “la storia e le costituzioni hanno configurato gli ordinamenti contemporanei fondandoli sulla volontà popolare e nello stesso tempo diffidando di essa, per cui hanno dato al popolo più voci, perché possa decidere in modi diversi, e anche correggersi”. Sembra scontato ma non lo è. Se il riferimento è alla democrazia liberale – quella conosciuta da Tocqueville in America – più che di “diffidenza” si dovrebbe parlare di precisi limiti posti al potere legislativo del popolo sovrano. Quest’ultimo non ha la possibilità di decidere a livello di comuni, province o regioni quanto non riesce a far passare a livello di Stato: gli è impedito, invece, di legiferare sui “diritti naturali” con i quali le costituzioni nate dalle rivoluzioni atlantiche gli hanno tarpato le ali. Quali sono questi limiti? Per i giuristi catto/e/comunisti sono i diritti sociali e oggi i diritti universali, fatti valere dai teorici dell’accoglienza indiscriminata, per i giuristi (chiamiamoli pure) vetero-liberali, sono il rispetto assoluto del diritto di proprietà, la priorità assegnata all’ordine pubblico sulla tolleranza del dissenso “scomposto” etc. etc. Al solito non faccio questione di sostanza ma di forme: si ha la libertà di porre i “limiti” dove si vuole, a seconda delle proprie credenze, ma non quella di accusare gli avversari di intendere la democrazia come carta bianca data a demagoghi spregiudicati. Alla stessa maniera, è pacifico per tutti che “i giudici debbono poter interpretare le leggi senza vincoli che provengano dall’esecutivo”: nello stato di diritto, lo abbia teorizzato o no Montesquieu, “ci sono dei giudici a Berlino”. Ma scrivere che i magistrati “debbono eventualmente persino poter dubitare” della legittimità delle leggi “e darne una interpretazione coerente con la Costituzione” significa sprofondare in “un maremagnum tutto pien d’imbrogli”, per citare l’immortale Giuseppe Gioacchino Belli. Una Costituzione “aperta” e progressiva, che prefiguri un modello di “società buona”, infatti, può essere interpretata coerentemente nei modi più diversi, in barba alla “certezza del diritto”.
In un articolo pubblicato da Avvenire il 18 dicembre 2015, “Le sentenze creative e la crisi dello stato di diritto. Il fantasma di Montesquieu”, Francesco D’Agostino scriveva che “agli inizi dell’epoca moderna matura e si impone (…) la dottrina della separazione dei poteri: da allora ci siamo abituati a pensare che governanti e legislatori non possano fare i giudici e che i giudici non possano fare le leggi, ma solo applicarle, né emanare decreti politicamente vincolanti, sottraendone la potestà ai governanti”. Sennonché, col passare del tempo, si assiste allo “stravolgimento a opera di magistrati di norme a forte rilevanza etica” in virtù di “orientamenti discutibili quanto si vuole, ma di esclusiva competenza parlamentare”. D’Agostino ha posizioni filosofiche spesso diverse dalle mie ma sottoscrivo toto corde la sua conclusione sconsolata. “In buona sostanza una parte molto attiva e determinata della magistratura pretende ormai di essere la vera rappresentante dell’autentica coscienza etica del Paese e procede ormai per ‘sentenze creative’. Tra i risultati perversi di questa pretesa c’è una vera e propria intimidazione del Parlamento, che anziché varare, quando necessario, leggi a forte contenuto etico, chiedendosi come esse poi verranno interpretate (e quindi alterate) dalle sentenze dei giudici, prende tempo e ne rimanda l’approvazione. La sensazione di sconforto che emerge da questo stato di cose è altissima, soprattutto da parte di coloro – e noi tra questi – che credono ancora allo stato di diritto e alla separazione dei poteri”.