Alessandro Barbano è stato un eccellente direttore del Mattino, divenuto anche per merito suo uno dei quotidiani più letti e prestigiosi del paese, grazie ai sociologi, ai filosofi politici, ai giuristi, agli scienziati politici invitati a commentare e ad analizzare i nostri difficili anni. Non sappiamo perché abbia lasciato (o sia stato costretto a farlo) la guida del giornale fondato da Matilde Serao e diretto, nel secondo dopoguerra, da Giovanni Ansaldo, il principe della stampa italiana, ma forse il suo legittimo radicalismo antisovranista (a ragione o a torto) può avere giocato contro di lui. Non a caso ha trovato un approdo nel Foglio, un quotidiano che, nato come spina nel fianco dell’establishment nazionale, si è riconvertito in coscienza critica della sinistra quirinalizia. Ognuno fa le sue scelte e il “nolite iudicare” è una massima evangelica che non andrebbe mai dimenticata. E tuttavia l’osservatore wertfrei delle vicende politiche, se ha l’obbligo di non far parte di nessuna tifoseria, non può non rilevare i comportamenti anomali delle squadre in campo.
Barbano ha fatto la sua scelta e l’ha motivata con un “Manifesto per una democrazia liberale dotata di un futuro” (Il Foglio del 15 agosto u.s.) che merita una lettura attenta e accurata. L’incipit, sicuramente, promette bene: “C’è un errore di fondo nella fittizia e impotente alleanza del ‘tutti contro Salvini e Di Maio’, e poi del ‘tutti contro Salvini’ che tiene in stallo la democrazia italiana dal 4 marzo 2018 e che rischia di replicarsi alla vigilia di nuove elezioni. È l’idea adolescenziale di costruire consenso sul destruens, cioè sulla critica radicale di un nemico comune”; ma subito dopo il lettore vede che la preoccupazione del teorico del nuovo liberalismo democratico italiano non verte sull’anomalia di una mobilitazione generale e unitaria contro il nuovo “Annibale alle porte” quanto sulla mancanza di un programma politico e di un ventaglio di valori profondi espressi dalla coalizione che si oppone al barbaro. Insomma, il fascismo c’è, è un dato indiscusso: è la Resistenza che va criticata per la sua mancanza di idealità che uniscano tutti i cittadini responsabili – di destra e di sinistra. Per neutralizzare “il pericolo del consolidarsi di un potere populista dai tratti marcatamente autoritari” e la “regressione della democrazia italiana verso forme illiberali”.
Barbano ha meditato su “sei coordinate” che investono i massimi problemi della storia italiana passata, presente e futura. Chiarisco subito che, in linea di principio, non c’è nulla che un sincero liberale non potrebbe sottoscrivere ma aggiungo che proprio qui è la debolezza di tutto l’impianto teorico. Il leit motiv dello scritto, infatti, potrebbe così semplificarsi: “C’è questo ma c’è anche quest’altro e vince chi ne tiene conto, bilanciando sapientemente ogni istanza che si levi dalla società civile”; e poiché si auspica una forza politica nuova (o rinnovata) impegnata in questa complessa “mediazione” (si adopera, non a caso, il vecchio termine “compromesso”) si ha la sensazione di un asso pigliatutto che lascia le negatività, sottese ad ogni valore politico, agli odiati avversari. Ad esempio, bisogna avere un senso ben inteso dell’interesse nazionale – “pensando sempre l’Italia come un intero”, recuperando “una visione nazionale oggi assente” – ma senza dimenticare che “c’è nella cultura liberale, cattolica e riformista (insomma il nuovo CLN) una quota di irriducibile cosmopolitismo che àncora il giudizio di un’offerta politica all’avanzamento universale della condizione umana, che legittima l’anelito a promuovere il modello democratico e che impone di considerare il problema della solidarietà pregiudiziale rispetto a qualunque progetto politico e civile”. Prendendo alla lettera queste ultime parole, che fanno pensare a un’enciclica di Papa Bergoglio più che a un manifesto politico, come conciliare “il problema della solidarietà pregiudiziale rispetto a qualunque progetto politico e civile” con le esigenze della comunità nazionale che, piaccia o no ai liberali del nostro tempo, era al centro dei classici dell’Ottocento e del primo Novecento, da Tocqueville a Mill, da Einaudi a Croce? In genere, tutti crediamo negli stessi valori, tutti abbiamo una qualche visione nazionale, tutti sentiamo il problema della solidarietà: a distinguerci è il quantum, sono le priorità, sono i sacrifici disposti a fare per l’una o per l’altra. E poiché qui ci troviamo nella dimensione dell’opinabile e non della Verità, a decidere saranno le urne e il “popolo sovrano”.
Un problema analogo sorge per quanto riguarda il tormentone dell’identità. “Si tratta di sottrarla alla storica contrapposizione tra un modello di derivazione illuministica, fondato sull’adesione a valori condivisi, e un altro di derivazione romantica, fondato sulla nascita e su una presunta unicità etnicamente attribuibile all’individuo. Nella sintesi cui sono chiamati i liberali, i cattolici e i riformisti, l’identità va concepita non più come ‘data una volta per tutte’, ma come la costruzione di un’intera esistenza: in quanto fondata su molteplici appartenenze, alcune legate a una storia etnica e altre no, alcune legate a una tradizione religiosa e altre no, essa è sempre più la risultante delle relazioni di socializzazione diretta tra gli individui e tra gli individui e le istituzioni”. Ma davvero la concezione romantica – quella di Ugo Foscolo, di Giacomo Leopardi, di Alessandro Manzoni, di Giosuè Carducci etc. – era una sorta di praefatio ad Hitlerum? E se le cose stanno davvero così che senso hanno la mediazione e il “compromesso” creativo affidato ai concreti rapporti tra gli individui e i gruppi sociali? In teoria, ci può essere “compromesso” tra tutti – persino tra nazisti e comunisti, qualora si accordino di sterminare gli ebrei, non tutti ma solo gli ebrei capitalisti – ma il bargaining diventa la colonna portante della democrazia solo in presenza di storie, di idealità, di credenze condivise. La preoccupazione di “identità in pericolo” non può essere eliminata con genericità dettate dal buonismo dilagante. Oggi assistiamo a paure, forse esagerate, che certi strati sociali hanno di perdere l’anima e le “radici”: minimizzarle non tranquillizza ma esaspera quanti nutrono quelle paure.
“Il rapporto con le altre culture”, scrive Barbano, è “reso urgente dall’impatto civile e sociale delle migrazioni nelle nostre società. La propaganda leghista ha avuto l’effetto di schiacciare l’intera problematica nello spazio simbolico del pathos, ribaltando i rapporti di forza: per la minoranza che coltiva il dirittismo universalista e cosmopolita di un’Europa senza frontiere, ignorando peraltro che non esiste politica senza un’idea di spazio e che non esiste spazio politico senza frontiere, c’è in Italia una maggioranza sovranista che le frontiere pretende di impermeabilizzarle, ignorando che lì è in gioco il rapporto tra le civiltà e perfino ciò che resta della forza spirituale dell’Europa”. Sennonché, ci si chiede, come è potuta venir fuori, in Italia, una “maggioranza sovranista”? Non ci saranno, per caso, problemi concreti, istanze comunitarie reali sui quali la famigerata “propaganda leghista” ha fatto leva e che l’establishment ha sistematicamente ignorato? E perché i “compromessi” che hanno in mente i Barbano non si possono confrontare civilmente con altre politiche, proposte da partiti e da movimenti che ripugnano all’ex direttore del Mattino?
In realtà, i valori “si prendono sul serio” quando se ne riconosce, si legittima e non si minimizza la loro diversità: soltanto quando noi siamo noi e gli altri sono gli altri, si può pensare a oneste strategie di convivenza possibili. Sicuramente il populismo riduce la complessità del mondo, ma altrettanto sicuramente quanti vedono in un fenomeno ormai diffuso da tempo in Europa e oltre Atlantico una forma nuova di tribalismo riducono la complessità del sovranismo – come del nazionalismo, come del populismo. Le “grandi sintesi” – oggi tra comunità e società, tra dirittismo e sovranismo, tra nazione e mondo – insegnava un classico del pensiero politico che non appartiene alla mia galleria di antenati, Antonio Gramsci – le fa la storia, non può esserci uno schieramento politico “alla CLN” che ne pretenda il diritto d’autore. Per noi liberali sarebbe la morte del pluralismo se si pensasse che, al di fuori dei saggi e dei responsabili, rimangono solo le forze eversive del male.