Forse il segno più inequivocabile della mens totalitaria è la cancellazione dei problemi, dei valori, dei simboli degli avversari giudicati, di volta in volta, o come espressioni della marxiana falsa coscienza (alla stregua, cioè, di interessi che si rivestono di nobili idealità) o come manifestazioni di cieco fanatismo. In tal modo, non si pecca contro lo Spirito, per dirla col vecchio Croce, ma ci si preclude la comprensione della realtà e quindi ci si vota a una sicura sconfitta. In politica, vincono quanti sanno percepire la direzione del vento e, se si tratta di demagoghi, il loro successo può essere la sconfitta di una classe dirigente democratica, che merita la débâcle, per aver chiuso gli occhi dinanzi a quella che Machiavelli chiamava la “realtà effettuale”.
Misurare le reazioni della gente in base al proprio sentire e ai propri parametri etici significa non capire gli altri e consegnarli al nemico. Nel 1919, pensare che la guerra fosse stata un’”inutile strage” e che a proclamarla fosse stata una èlite del potere che aveva mandato cinicamente al massacro centinaia di migliaia di umili fanti al grido “armiamoci e partite!” volle dire inimicarsi larghi settori della borghesia italiana che all’intervento avevano creduto e che avevano perso nelle trincee il fiore di lor gioventù. (Non c’era quasi famiglia borghese che non avesse in salotto la foto di un figlio, di un padre, di uno zio caduto sulle trincee del Carso e del Sabotino). In un film, che a me sembra quasi l’idealtipo dell’antifascismo fascista, “All’armi siam fascisti” (1962) di Lino Del Fra, Cecilia Mangini, Lino Miccichè (con un commento ottusamente ideologico di Franco Fortini), la marcia su Roma veniva spiegata come un complotto della retriva borghesia italiana per fermare l’ascesa del proletariato. Ci vollero anni per ristabilire un minimo di verità storica e ancora adesso la lezione di Renzo De Felice, nei discorsi e nelle commemorazioni ufficiali, viene completamente subissata da tsunami retorici che sembrano destinati a non esaurirsi mai.
Queste considerazioni mi vengono in mente leggendo quanto si scrive dei gialloverdi al governo e soprattutto della Lega di Matteo Salvini. Persino il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nella sua recente relazione, ha invitato il Paese all’accoglienza generosa, a “non aver paura”, a considerare che senza i migranti saremmo ancora più esposti alla crisi. Insomma, timori infondati quelli che hanno portato le nostre periferie urbane, un tempo elettrici delle sinistra, a votare per il Truce (come lo chiama, what a weak humour!, Il Foglio per l’ovvia assonanza con “Duce”). “La sinistra – ha scritto un politico di buon senso come Marco Minniti – ha regalato per molti anni il tema della sicurezza alla destra, per una sorta di divisione delle sensibilità che finiva per essere una divisione dei compiti. Alla sinistra toccava il sociale, alla destra l’ordine. Si è andati avanti così per anni”, poi “una progressiva evoluzione sociale e urbanistica ha mutato l’incidenza sociale del tema sicurezza. Che ha iniziato a riguardare i ceti più deboli ed esposti”. Che la sinistra impari la lezione non è scontato ma certo è che nascondere la polvere sotto il tappeto non ne farà una forza politica egemone.
Anche nell’altro versante dello schieramento politico, però, si manifestano insensibilità analoghe. In uno degli articoli più illuminanti che abbia letto in questi ultimi tempo, “L’ecologia che sfida i populismi” (La Stampa, 18 maggio) Giovanni Orsina ha spiegato in maniera magistrale la forte presa sull’opinione pubblica delle due ricette opposte per il futuro, il sovranismo e l’ambientalismo. Entrambi i movimenti, ha scritto, giocano “sul timore che il futuro possa essere peggiore del presente, sul desiderio di arrestare i processi di trasformazione e conservare quel che è, se non addirittura tornare a quel che era”; entrambi “toccano corde emotive profonde” che portano a “sottovalutarne le componenti razionali, tutt’altro che irrilevanti”.
Dinanzi agli allarmi ambientalisti (che spiegano il successo della saccentella Greta Thunberg), le destre, in genere, si trincerano dietro la “storia del clima” (già nel Trecento era capitato questo, già nel Seicento si era verificato quello…) come se attribuire, sulle orme di don Ferrante, le catastrofi naturali che si sono abbattute sul pianeta “alle stelle” e ai loro cicli invece che all’intervento umano sull’habitat naturale servisse ad archiviare la pratica. “Beato chi vita (industriale e commerciale) crea!”, gridano i Pangloss del mercatismo: non si può concedere, a loro avviso, che per le fisime degli ambientalisti i negozi di Piazza San Marco e dintorni perdano i loro clienti, in virtù del decreto che impedisce a navi lunghe due volte Piazza San Marco di nascondere, con il loro passaggio, l’isola di San Giorgio. Insomma vendere necesse est, vivere non necesse.
In realtà, sta nascendo (soprattutto fuori d’Italia per l’insipienza dei nostri Verdi nati da una costola del ’68) una sensibilità verso l’ambiente e verso gli animali che non va sottovalutata per il fatto di essere stata recepita nell’enciclica Laudato sì di un Papa (sciaguratamente per noi) antioccidentale e pauperista. Il liberalismo diffida della sovranità: sia di quella del cittadino elettore sia di quella del cittadino consumatore: ad entrambi pone dei limiti, in un caso con lo Stato di diritto, nell’altro, con la tutela di beni pubblici sottratti alla colonizzazione mercatista (tra i lati “buoni del fascismo” – posso dirlo senza il timore di perdere la cattedra – ci fu anche questo, non va dimenticato).
Troppe volte amici e colleghi che stimo fanno ironie sulle battaglie di Michela Vittoria Brambilla (un po’ il pendant di Marco Minniti giacché come l’esponente Pd porta nella sinistra un tema ostico come l’ordine pubblico, lei porta nella destra un tema poco sentito come i diritti degli animali). Ad essi chiedo: e se nella società civile stesse maturando una nuova consapevolezza etica che porta a “proteggere gli alberi” e a tutelare gli animali dalla violenza gratuita dei macelli e dalla crudeltà degli allevamenti intensivi, riguarderemo come anime belle i portatori di queste nuove sensibilità? E se anche in Italia gli ambientalisti diventassero numerosi come i populisti, i sovranisti, i nazionalisti etc., dovremmo metterli in condizioni di non nuocere, dopo aver deprecato i mali della democrazia e lo spazio che il “governo del popolo” concede a tutte le opinioni? La “morte pietosa” nei macelli, la chiusura degli allevamenti intensivi sicuramente faranno alzare il prezzo della carne ma se a tale eventualità fosse indifferente la maggioranza dei cittadini, le “ragioni del mercato” dovrebbero venire blindate istituzionalmente e messe in condizione di prevalere sulle “ragioni del cuore”? E queste ultime non sono anch’esse “interessi” che chiedono di essere tutelati e possono diventarlo traducendosi in leggi approvate dalle maggioranze parlamentari?