Una volta, parlando qui su Atlantico Quotidiano di un libro del grandissimo Victor Davis Hanson, “The Case for Trump”, dicevo del presidente uscente che è una sorta di “eroe tragico” di tipo classico, di cui l’America ha disperatamente bisogno ma che non sarà mai apprezzato come merita nel proprio Paese. Gli eventi di ieri sera nella capitale americana ne sono in qualche modo la migliore conferma. Infatti, come anche il direttore di questo magazine ha lasciato intendere nel suo pezzo di ieri, The Donald, con la linea di comportamento adottata in questi ultimi giorni ed ore, in particolare con quel “non ci arrenderemo mai” rivolto ai concittadini poco prima che tutto cominciasse, si è in buona sostanza politicamente suicidato. E la modalità prescelta (consapevolmente o inconsapevolmente) sembra essere proprio quella di un eroe da poema omerico o da mitologia greca.
Un altro, ad ogni buon conto, è il discorso da farsi sulle conseguenze dell’“insano gesto” del presidente, cioè sulle migliaia di cittadini inferociti che hanno deciso di mettersi in marcia per poi fare irruzione nel sancta santorum della democrazia (non solo americana), cioè il palazzo del Congresso degli Stati Uniti. Qui, infatti, se vogliamo dire le cose come stanno, finisce la cronaca e comincia la storia. Come del resto alcuni brillanti commentatori hanno in queste ore sottolineato, in primis Daniele Capezzone, Maria Giovanna Maglie e Vittorio Sgarbi, l’insurrezione non può essere liquidata con poche sprezzanti parole di condanna, in uno sfoggio di considerazioni scontate e affermazioni di principio lapalissiane – ovvio che la violenza non è mai giustificata, e che il verdetto elettorale va sempre rispettato, e che la democrazia è sacra, ecc., ecc…
Detto en passant, il commento che Sgarbi ha pubblicato su Facebook lascia poco spazio alla retorica: “Ben 4 morti tra i sostenitori di Trump. Se questo è il bilancio dell’assalto al congresso, pare chiaro che a subire la violenza siano stati i manifestanti.” Ovviamente, però, la narrazione corrente è di tutt’altro segno. E soprattutto, di quello che è accaduto prima, del “contesto”, si parla poco o nulla. Sull’ombra che pesa sulle elezioni, “rubate” o quanto meno ritenute tali da una buona fetta di americani (non solo seguaci di Trump), si sorvola quasi fossero fantasie e manie di persecuzione. A tal proposito, è d’obbligo ricordare che secondo autorevoli sondaggi non solo la gran parte degli elettori repubblicani, ma anche il 31 per cento di quelli indipendenti, e persino il 17 per cento dei Democratici sono convinti che ci siano stati brogli e che questi abbiano influito pesantemente sul risultato elettorale. Con altrettanta disonestà intellettuale, tanti si guardano bene dal far menzione del gioco alla delegittimazione degli avversari (e dei loro elettori), praticato da tempo immemorabile dai Dems, o della bufala Russiagate nel 2016, quando fu teorizzato e praticato (cito dall’editoriale summenzionato di Federico Punzi) “un tentativo – questo sì golpista, messo in atto dall’interno delle istituzioni – di abbattere o quanto meno azzoppare la presidenza Trump”. Per non parlare degli orrori del “marxismo culturale” di cui abbiamo parlato alcune settimane fa. E si potrebbe continuare a lungo.
Ma tutto questo ha più a che fare con la cronaca che con la storia – anche se, per la verità, se messe tutte assieme e organizzate secondo i giusti criteri, tutte queste circostanze prendono un significato e assurgono ad una coerenza di tipo quasi filosofico, tanto che uno è portato a ripensare il tutto in una chiave particolare, vagamente apocalittica… A riportarci con i piedi per terra, per fortuna, ci sono i classici, come Victor Davis Hanson ci insegna. E tra questi un classico tutto nostro, l’immenso Niccolò Machiavelli, il quale, più o meno cinque secoli fa, ci ha mostrato con precisione quasi assoluta come possiamo – e dobbiamo, secondo me – interpretare gli eventi di Washington. O quanto meno come possiamo evitare di perderci in un mare di banalità e ovvietà…
“… perché li buoni esempli nascano dalla buona educazione, la buona educazione, dalle buone leggi; e le buone leggi, da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano: perché, chi esaminerà bene il fine d’essi, non troverrà ch’egli abbiano partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della publica libertà.” (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, Libro primo, Capitolo 4)
Se i tumulti del giorno dell’Epifania serviranno a far sì che delle “buone leggi” emendino lacune ed errori e clamorosi del sistema americano, oltre che fare giustizia di atteggiamenti inaccettabili sotto tutti i punti di vista da parte dell’establishment della più grande democrazia del mondo, sarà ottenuto un risultato straordinario ed epocale. Di cui dovremo sempre esser grati ai protagonisti, e soprattutto alle quattro vittime, di una giornata storica.