Mi ha fatto un certo effetto, da tifoso, vedere la prima pagina del Romanista che lo scorso 3 giugno titolava “We Can’t Breathe” e sullo sfondo i calciatori della Roma che s’inginocchiano, in questa sceneggiata antirazzista che ha preso ormai piede negli Stati Uniti (e non solo purtroppo) e che in realtà ha l’unico scopo non dichiarato, o dichiarato in parte, di colpire l’amministrazione di Donald Trump accusandola di razzismo. Non starò qui a discutere di quello che è diventato il quotidiano dei tifosi della AS Roma, ormai più simile a Lotta Comunista che a un giornale sportivo. Non merita alcuno spazio supplementare. Voglio però sottolineare tutta l’ipocrisia di questa sinistra cialtron-salottiera che, come per esempio ha fatto il sindaco di Milano Sala, non ha lesinato giustificazioni per i looters, i saccheggiatori che stanno devastando le strade e i negozi d’America e perfino uccidendo, come risposta all’assassinio di George Floyd a Minneapolis ad opera di uno dei tanti poliziotti bianchi e teste calde dei vari dipartimenti statunitensi. I looters appartengono tutti, a livello organizzativo, a quella discarica emotiva che si chiama Black Lives Matter.
Il movimento nasce nel 2013 da un “hashtag” (ebbene sì, Wikipedia dice così) col quale si volle rivendicare l’arresto del poliziotto George Zimmerman per aver ucciso l’adolescente nero Trayvon Martin nel febbraio del 2012. In realtà sarebbe carino sapere chi c’è alle spalle questa presunta organizzazione per i diritti umani che dietro nobili intenti quali la lotta al razzismo, ai soprusi delle forze di polizia e all’ineguaglianza sociale del sistema statunitense nasconde, è evidente, ben altri scopi. Basta vedere quali sono i suoi riferimenti storici: il Black Power Movement (bollato a più riprese negli anni ’70 come un movimento eminentemente razzista contro i bianchi), il Black Feminist Movement, il Pan-Africanism, l’Anti-Apartheid movement, e via discorrendo, passando per i soliti immancabili movimenti Lgbt e carrozzoni simili tutti rigidamente inquadrabili nella galassia comunista ed eversiva degli Stati Uniti (chissà se il movimento Lgbt avrà visto il film “Moonlight” che descrive come la comunità nera americana sia ancora un coacervo di maschilisti omofobi da far impallidire i loro amichetti islamisti).
Certo, Jesse Jackson è lontano da questo carnevale di umana varietà; Jackson era un ministro del culto battista che era riuscito a indirizzare la sacrosanta protesta lungo margini di accettabile confronto politico. Era figlio di quel compromesso che nel 1964 portò il presidente Johnson, appena succeduto a John Fitzgerald Kennedy, assassinato il 22 novembre 1963 a Dallas, a firmare il Civil Rights Act, la legge per l’abolizione delle discriminazioni razziali tanto voluta da Robert Kennedy e dal suo spin doctor dell’epoca Jackie Kennedy.
Questo movimento è più simile all’Isis come organizzazione. È composto da vari apparati decentralizzati, e dai figli stupidi e viziati della generazione sessantottina e settantasettina, quelli cresciuti a videogame, cartoni animati e musica hip hop. Quelli che pisciano in strada e si filmano per pubblicare su Tik Tok o Porn Hub; quelli che pensano che svaligiare un negozio D&G o Nike sia il massimo del gesto rivoluzionario; forse perché qualcuno di loro ha letto quella boiata insensata che è il libro “No Logo”, della reginetta dei “rivoluzionari” ex-grunge Naomi Klein, senza averlo capito fino in fondo visto che i marchi sembrano gli obiettivi primari di questi scannagatti firmati.
Sapere chi c’è dietro questa accozzaglia di grillini d’oltreoceano coi pantaloni smutandati (magari in ambienti ristretti si sa, ma sarebbe il caso che diventasse di pubblico dominio) aiuterebbe a inquadrare e contenere il fenomeno; se non altro per tagliare loro i fondi come si fa con le organizzazioni terroristiche islamiche a loro molto affini. Bene ha fatto, nel frattempo, il presidente Trump a dichiarare tutta la galassia Antifà come un movimento terroristico; a questo punto si spera che anche Black Lives Matter venga messa all’indice.
Ma torniamo al focus di questo articolo. L’ipocrisia della sinistra Antifà. Sarebbe il caso, infatti, che gli inginocchiati devoti dell’antirazzismo provassero a fare la stessa cosa non soltanto quando viene colpito ingiustamente un nero americano da parte della polizia bianca, ma anche in senso inverso, per esempio. Nel 2019, secondo il sito internet statista.com, la polizia statunitense avrebbe ucciso 331 maschi bianchi e 212 neri. Ma non mi sembra che per alcuno di questi malcapitati non afro-americani si sia sollevato lo stesso caos. E se uno di quei maschi bianchi fosse stato ucciso da un poliziotto nero? Non solo, gli inginocchiati dovrebbero altresì, per essere un minimo credibili, genuflettersi anche di fronte alle migliaia di uccisioni che ogni giorno avvengono nel mondo (Nigeria, Pakistan e Somalia in primis) nei confronti dei cristiani ad opera dei terroristi islamisti. Non ho visto manifestazioni di protesta e rabbia di fronte alla sconcertante notizia di alcuni giorni fa, in Iran una ragazzina 13enne è stata decapitata nel sonno dal padre che si opponeva a una relazione con un uomo più grande di lei. Non ho visto manifestazioni di protesta dopo l’atroce attentato di Pasqua dello scorso anno nello Sri Lanka contro la comunità cristiana. Non ho visto caroselli ipocriti di manifestanti protestare contro la Cina comunista che ha messo in ginocchio mezzo mondo con il suo virus di Wuhan e, non contenta, come l’Associated Press ha dimostrato, ha occultato i documenti relativi alla sua diffusione influenzando l’Oms. Non ho visto e continuo a non vedere manifestazioni di protesta nei confronti delle persecuzioni islamiste ai danni degli omosessuali che in Iran come in Arabia Saudita come altrove nei Paesi islamici (e lo dico al movimento Lgbt che sostiene BLM) vengono ancora perseguitati per la loro inclinazione sessuale.
Mi fermo qui. Il giorno che vedrò gli inginocchiati protestare genuflessi contro tutte le altre violazioni, contro tutte le altre ingiustizie che costellano questo mondo globalizzato, allora potrò dar loro una qualche credibilità. Fino a questo momento si tratta, a mio avviso, di mera propaganda anti-americana. Anzi anti-Trump. Con buona pace di Halsey, di Janelle Monaé, e delle tante star americane “democratiche” così solerti a raccogliere fondi per pagare le cauzioni e far uscire gli scannagatti antifà dal carcere.