Oggi i leader si bruciano in fretta, in pochi anni, anzi in pochi mesi, sentiamo dire da tutte le parti. Gillian Tett sul Financial times del 15 maggio, in un pezzo intitolato “The rise of pick’n’ mix politics”, cerca di darsi una spiegazione. E paragona la crescita impetuosa e l’altrettanto impetuosa uscita di scena di figure e di movimenti, con la nostra tendenza di tardo moderni o post moderni, al consumo individualizzato, quella che chiama la Generation Customisation, abituata a comporre le play list di Nexflix o di Spotify. La Gen C avrebbe trasferito in politica lo stesso atteggiamento: non ama più i prepackaged politics parties ma cerca “marchi e idee” adatti ad ogni individuo “al di là delle tradizionali linee partitiche”. E si stanca presto, per passare quindi a un nuovo “prodotto”. L’intervento è stimolante e merita riflessione, che però alla fine ci spinge a mettere molta acqua nel vino di quella tesi.
Il paragone tra la scelta del consumatore e quella elettorale è antica come la democrazia rappresentativa, cioè data da fine Ottocento. Negli anni Sessanta del secolo scorso poi era nata negli Stati Uniti una scuola, chiamata della “scelta pubblica” e capitanata da economisti, su tutti James M. Buchanan, con la sua opera classica “Il calcolo del consenso” (tradotta in Italia per il Mulino). Per Buchanan le scelte dell’elettorato non erano molto diverse da quelle dell’attore economico razionale di fronte a un mercato: solo che invece di avere a che fare con un mercato di beni da acquistare, egli doveva muoversi all’interno di un mercato di partiti o di candidati da scegliere. Buchanan era senz’altro un conservatore, ma a noi pare più fondato un conservatorismo non così rigidamente individualistico. E ancor meno convincente è la tesi di un nuovo elettore-consumatore, ancora più rapido e vorace nelle sue scelte. Se per Aristotele l’uomo è un animale politico, per Edmund Burke un animale religioso, potremmo dire che l’uomo è anche un animale conservatore. Che per natura tende ad adattarsi al proprio ambiente, ma a fatica si sposta per riadattarsi in un nuovo, e soprattutto è estremamente guardingo verso chi affidare la propria fiducia.
E questo atteggiamento non cambia neppure nei confronti dell’offerta politica. Gill cita il caso di Nigel Farage e del suo nuovissimo Brexit Party, che in pochi giorni è schizzato al 35 per cento nei sondaggi. Ma Farage è una vecchia conoscenza degli inglesi, senza il suo brand un partito del genere non avrebbe avuto storia. Soprattutto Farage si muove all’interno di un tradizione inglese e britannica ultra secolare, che permette agli inglesi, perlomeno a quelli antichi di diverse generazioni, di trovarsi appieno in lui: di riconoscerlo.
Del resto, se guardiamo alla crescita delle leadership recenti, vediamo che tutte hanno preso del tempo per imporsi, cioè che i cittadini si sono fidati di qualcuno che in fondo conoscevano bene. Berlusconi era ben noto agli italiani molto tempo prima di scendere in campo, e cosi Beppe Grillo, senza il quale i 5 Stelle non sarebbero nati. Anche Renzi e in fondo lo stesso Salvini circolavano nel mercato politico da tempo. E stiamo parlando di leader naturali, ciò scaturiti da percorsi politici spontanei. Ma anche leader costruiti a tavolino, da tecnostrutture di esperti, come Obama e come Macron, hanno richiesto tempo, e comunque si sono imposti il primo all’interno di un partito tradizionale, i Democratici Usa, il secondo nell’alveo delle vetuste istituzioni della Quinta Repubblica – le stesse, per inciso, che lo stanno soffocando.
Andiamoci piano quindi a pensare che oggi si affermi il leader usa e getta perché l’elettore-consumatore è diventato ultra volubile e si disamora presto. In fondo, Renzi, il caso forse più macroscopico a conferma di tale tesi, non è ancora uscito di scena, tanto che sabato a Perugia per interposta persona ha spedito un bel #Zingarettistaisereno. La politica possiede infatti una sua dimensione sacra, panica, irrazionale, in ultima istanza è lotta per difendere la propria comunità contro il nemico, perciò non può essere compresa solo guardando alla razionalità degli attori; razionalità che, peraltro, come si è visto, ha fatto acqua da tutte le parti anche in economia. Buona fortuna quindi agli ennesimi sognatori italiani di un “grande centro” e alla loro ricerca di un leader da “vendere” agli elettori.