Il calendario vuole che questa rubrica appaia nell’ultimo numero dell’anno di Atlantico. Ciò consente quell’esercizio del bilancio, in apparenza un genere scontato, ma in realtà niente affatto, perché permette di verificare quante previsioni siano diventate realtà e quante invece siano rimaste nell’aere delle idee e dei desideri. Dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che nella storia dell’uomo, regolata certo da leggi sue specifiche, v’è sempre spazio per l’imprevisto: per quella che Croce chiamava “libertà”, o per quello che una visione cristiana chiamerebbe “miracolo”, o infine per quella che i francesi chiamano “divine surprise”.
La divine surprise del 2019 è Boris Johnson. Esattamente un anno fa quasi tutti gli osservatori davano per spacciata la Brexit, o per un colpo di palazzo che avrebbe portato gli europeisti al governo oppure per altri stratagemmi. Ragion per cui, insieme alle difficoltà di Trump, i forecaster di fine 2018 davano per spacciato quel moto cominciato un decennio fa e la cui prima insorgenza era stata proprio il doppio uppercut referendum Brexit – elezione di Trump nel 2016.
Ebbene, un anno dopo, possiamo invece scrivere che la rivoluzione sovranista, come ho chiamato questo processo, è più che mai in marcia e che con la divina sorpresa di Boris Johnson e della strepitosa vittoria di pochi giorni fa, essa entra in una nuova fase. È ancora presto per calcolare quali saranno gli effetti tellurici della Brexit: per intanto, in pochi giorni, la narrazione global-europeista è già entrata in una dimensione di autentico terrore.
Quanto a Trump, noi conservatori dobbiamo infinitamente ringraziare la sinistra americana e i Dem, perché l’impeachment è certamente il maggior regalo di Natale (o, come direbbero loro, delle Feste del Solstizio) che potevano donare a Trump, e indirettamente a noi. L’impeachment non solo ha già fatto crescere i sondaggi a favore del presidente Usa, ma ha compattato un fronte repubblicano altrimenti diviso dalla disruption dell’Arancione: soprattutto ha regalato il terreno in cui meglio si muove l’ex imprenditore, quello della polarizzazione e della contrapposizione amico / nemico. Anche le previsioni di un’imminente recessione americana, prevalenti un anno fa, si sono dimostrate fallaci. E se è vero che un tasso di gradimento intorno al 48 per cento per Trump è basso per un incumbent che, in più, sta governando la più importante crescita Usa dagli anni Sessanta, è anche vero che nessun presidente Usa al primo mandato è stato mai bocciato quando l’economia viaggiava. Ma proprio per quei fattori imponderabili, il novus di cui parla Sant’Agostino, non diamo nulla per scontato.
Anche le elezioni europee dimostrano che la rivoluzione sovranista è in marcia. Ci sono state prime settimane di entusiasmo ebete e forzato, per via della “sconfitta dei sovranisti”. Ma nessuno realisticamente, al di là degli slogan propagandistici, pensava che forze politiche sparse per di più su tre gruppi diversi del Parlamento Ue, potessero disporre di un numero tale di deputati da rovesciare completamente il tavolo della maggioranza incentrata su popolari e socialisti. Ma il fatto nuovo e inedito è stato che questo blocco non ha più, per la prima volta nella storia, la maggioranza. E infatti gli effetti si sono subito sentiti: con la bocciatura del candidati previsti nell’accordo pre-elettorale e con il recupero all’ultimo di Von der Leyen, riuscita ad essere eletta solo grazie al voltafaccia dei 5 stelle.
E qui ritorna la visione agostiniana, per cui il nuovo irrompe anche attraverso eventi negativi. Il cambio di cavallo del partito di Grillo e Casaleggio a Bruxelles ha consentito infatti di mostrare il vero volto di un movimento che, probabilmente fin dall’origine, era strutturato come gate keeper: intercettare la protesta e il malcontento contro il regime italiano, legato alla eurocrazia, per convogliarla in una forza che alla fine rafforzasse, o perlomeno puntellasse, il sistema. Che è quello che accaduto.
Per questo la rottura di agosto, l’altro fatto rilevante del 2019 sul piano politico interno, è stata, al di là degli elementi di dettaglio, una scelta giusta e l’esercizio del Politico nella sua essenza. Certo, ora ci tocca il governo madurista, a protezione del peggiore e più fradicio establishment.
Ma la rivoluzione, come scriveva uno che dell’argomento se ne intendeva, Vladimir Ilyich Ulyanov, noto ai più con il nome di Lenin, è proprio un percorso in cui, in alcune circostanze, si fa un passo avanti per poi doverne fare due indietro. In ogni caso, questo 2019 ci conferma come la rivoluzione sovranista assomigli, più che alla guerra di cozzo frontale di eserciti o alla guerra asettica e tecnologica degli anni Novanta, alla guerra di trincea, con i suoi avanzamenti millimetrici ma anche con le sue esplosioni improvvise che possono anche far recedere. Oppure alla guerra di resistenza, immortalata, dal punto di vista degli eserciti “occupanti”, in film come Full Metal Jacket o più recentemente The Sniper. I resistenti siamo noi, ovvio, anche se Clint, il regista di The Sniper, non starebbe certo con gli occupanti di Bruxelles.