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L’altra faccia del lunedì – Ti tasso per renderti migliore: l’ideologia pro tax del governo Giuseppi

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Con l’aumento delle aliquote sulla seconda casa e la tassa sulle minzioni della Regione Lazio siamo solo all’inizio. Se non ne fossero vittima le nostre tasche, ci sarebbe da sorridere sui futuri balzelli che il governo sostenuto da Nicola (Zingaretti, non l’omonimo Maduro) ci riserverà. Ed è altrettanto evidente che uno dei punti chiave delle opposizioni unite dovrà essere la battaglia anti-tasse.

Per colpire bene, occorre però capire l’origine di questa ideologia delle tasse. Parlare genericamente di comunismo è passabile a livello propagandistico, ma non è del tutto preciso. Se con comunismo si intende la cultura politica dell’ultimo PCI berlingueriano e del Pds, identico al primo solo con il nome mutato, allora sì. Se invece con comunismo si intende quello storico, precedente agli anni del declino, allora ricordiamo che i comunisti, fino alla fine degli anni Settanta, erano favorevoli alla riduzione delle tasse. Una battaglia storica della sinistra, dai tempi della tassa sul macinato: tanto è vero che i liberisti Pareto e Pantaloni, alla fine del XIX secolo, simpatizzarono con i socialisti, a loro dire il più forte e solido partito anti-tasse, convinti che esse andassero combattute perché gravavano soprattutto sui lavoratori. La stessa idea di arrivare al socialismo attraverso la progressiva eutanasia dell’imprenditore tramite prelievo fiscale non è di stampo socialista e comunista ma propria della socialdemocrazia scandinava. Ma fino agli anni Settanta il termine socialdemocrazia era, in Italia, considerato un insulto.

Cosa è successo a cominciare da quarant’anni fa? Perché un partito, il PCI, fino a pochi anni prima favorevole alla riduzione fiscale, cominciò a teorizzare le manette agli evasori (così Berlinguer a inizio anni Ottanta)? Ce lo fa capire una figura, a suo modo tragica e dannosa per il Paese, come Vincenzo Visco, l’indimenticabile Dracula dei governo dell’Ulivo, ora ritornato, da esponente di LeU, consigliere del ministro Gualtieri. Visco è stato comunista? Sì e no.

Prima di approdare al PCI negli anni Ottanta come esponente della sinistra indipendente, Visco veniva infatti dal Partito repubblicano di Ugo La Malfa e come tale era stato consulente di diversi ministri dell’Edera. E la sua idea e prassi di tasse è figlia infatti della elaborazione cultuale dei repubblicani lamalfiani. Un partito tutt’altro che liberale: keynesiano, ultra europeista, rigorista, tecnocratico e statolatrico, con un forte impianto moralistico derivante dal Partito d’azione. Che possedeva una concezione etica di fisco: bisogna aumentare e far pagare le tasse non tanto per una necessità di cassa, o per la giustizia sociale, quanto per educare gli italiani a essere civili. E non è davvero un caso che fossero entrambi repubblicani il ministro delle finanze tassatore del governo Craxi, Bruno Visentini, che finì la sua vita senatore dei Progressisti occhettiani, e Tommaso Padoa Schioppa, il vero artefice dell’incatenamento italiano alla Ue, e teorico delle “tasse sono bellissime” quando sedeva al posto ora di Gualtieri nel secondo tragico governo Prodi.

Negli anni Settanta, in crisi di idee e di progetti, e costretti a venire a patti con l’establishment, i comunisti vendettero se non l’anima il cervello in parte ai repubblicani lamalfiani (non a caso pasdaran dell’ingresso del PCI nel governo) in parte alla sinistra dossettiana. Movimenti di minoranze le cui tesi però il partititone di Botteghe oscure fece da quel momento diventare senso comune a colpi di bourrage de cranes propagandistico.

Se, quindi, l’ideologia pro tasse è radicata nel Pd e nei 5 Stelle, da quel punto di vista nipoti del berlinguerismo più deteriore, e se l’origine è da cercare nella concezione etica delle tasse (ti tasso per educarti) vuol dire che occorrerà contrapporre una costante, precisa e rigorosa offensiva culturale no tax, di dimensioni thatcheriane o reaganiane: e non limitarsi a discutere sui singoli balzelli e sulle loro aliquote.

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