I giornali italiani, a quanto pare, non ne hanno parlato, e questo comprensibilmente, dato che la notizia presenta due gravi limiti: è “troppo americana” e, quel che è peggio, è pro-Trump. Eppure, l’evento cui si riferisce possiede tutte le caratteristiche che di solito catturano l’attenzione dei sociologi della politica (o presunti tali) che imperversano sui media di qua e di là dell’oceano. Vogliamo tentare di colmare umilmente il vuoto? Sì? Ok, vediamo allora innanzitutto che cosa è successo e subito dopo, qualche considerazione a margine.
Sabato 9 novembre, è in corso una partita di football americano al Bryant-Denny Stadium, Alabama, tra la squadra padrona di casa, cioè quella della University of Alabama, e quella della Louisiana State University; alle 12:10, durante un timeout, il presidente degli Stati Uniti e la first lady, che hanno appena preso posto nel box riservato di un facoltoso imprenditore edile del luogo, vengono inquadrati dalle telecamere dello stadio e mostrati sui maxischermi; accade qualcosa che visibilmente sorprende anche il presidente: dal pubblico (posti a sedere 101.821) si leva un boato assordante e prolungato di applausi, una scena dal sapore epico… Uno sparuto manipolo di disperati azzarda un timido “buu” ma viene immediatamente sommerso dagli altri 100 mila che scandiscono in coro “USA, USA”. Al presidente e alla first lady non resta che sventolare un fazzoletto in segno di gratitudine e unirsi all’applauso…
Qualcosa di opposto accadde, invece, un paio di settimane fa al National Park di Washington, DC., capienza 41.339 posti a sedere, durante una partita della World Series 2019 (cioè la 115a edizione della serie di finale della Major League di baseball), quando il pubblico sommerse di “buu” il presidente, per la gioia dei mainstream media. Qualcuno tra la folla scandiva distintamente “Lock him up, lock him up!”, l’equivalente di “In galera, in galera!”
Morale della favola? Ci sono due Americhe, una agli antipodi dell’altra. Il commento di Thomas Lifson su The American Thinker è lapidario: “Le differenze politiche regionali sono ai livelli più alti dalla fine della Guerra Civile. […] L’America si sta dividendo in due nazioni, una è quella delle zone costiere e di poche altre aree interne, tutte piene di odio per il presidente Trump e i suoi sostenitori, l’altra, che comprende tutto il resto del Paese, è quella che in gran parte è schierata col presidente e che ogni volta che quest’ultimo entra in uno stadio si alza in piedi e intona ‘USA, USA!’ È triste, ma questa è la realtà.”
Per la verità quella delle due Americhe non è una novità. Ne parlò tra gli altri, come ha ricordato qualche tempo fa Peggy Noonan sul Wall Street Journal, Lance Morrow in un articolo-saggio pubblicato su Time Magazine nell’ottobre 1972, mentre era in corso la campagna elettorale che vedeva contrapposti nella corsa alla presidenza Richard Nixon e George McGovern. Il titolo era, appunto, “The Two Americas”. “Ero ancora al college,” racconta la mitica speechwriter di Ronald Reagan, “e il saggio mi colpì molto”. I candidati erano così diversi tra loro, scriveva Morrow, che sembravano rappresentare due differenti percezioni dell’America: “Essi parlavano di due Paesi diversi, due differenti culture, due Americhe”. La campagna di McGovern marciava al ritmo dei lunghi anni ’60, rivolte razziali, la guerra, il femminismo, la rivoluzione sessuale e rifletteva una concezione romantica di ciò che è, e soprattutto deve essere, la leadership. Nell’America di Nixon, invece, c’era il senso di “sistema”. Il sistema “libera iniziativa”, “famiglia” e “legge e ordine”. Epperò, come nota la Noonan, Morrow riconosceva nelle due Americhe di quel tempo un “comun denominatore” che oggi latita, l’onesto desiderio di tutti, destra, centro e sinistra, di trovare e battersi per ciò che poteva effettivamente essere la cosa migliore per l’America. Quel saggio era stato scritto con un rispetto e un amore per il popolo americano che oggi non si intravede quasi più.
L’amara considerazione di Peggy Noonan, evidentemente, è tutt’altro che infondata. Anzi, si può ben dire che la cosa sia sotto gli occhi di tutti. Ed è ben giustificata la nostalgia per i bei tempi in cui nei discorsi che scriveva per il “suo” presidente abbondavano gli elogi per delle icone democratiche come Henry M. “Scoop” Jackson o JFK. “Citavamo Franklin D. Roosevelt e Harry S. Truman più di Dwight Eisenhower”, perché Reagan non perdeva l’occasione per oltrepassare la linea di demarcazione tra repubblicani e democratici ogni volta che gli era possibile, e questo nonostante il presidente fosse ben consapevole delle differenze tra repubblicani e democratici, che pure c’erano, ed erano, talvolta, già allora abissali.
E tuttavia, ci permettiamo di aggiungere, nel farsi un’opinione sullo stato dell’arte nel dibattito politico, non si può non tener conto di un aspetto molto significativo: se i repubblicani di oggi non sono più esattamente come quelli di una volta, si deve riconoscere che i democratici hanno conosciuto una mutazione genetica senza precedenti nella storia americana. Oggi chiunque riascoltasse sovrappensiero taluni discorsi di JFK o di suo fratello Robert faticherebbe a collegarli alle attuali posizioni dei Dems. Per dire, chi udisse per la prima volta la celebre frase di John Kennedy “Non chiedetevi che cosa il Paese può fare per voi ma quello che voi potete fare per il vostro Paese”, non si sognerebbe mai di attribuirla non dico ad una Alexandria Ocasio-Cortez o a un Bernie Sanders (ohibò!), ma anche a Hillary Clinton, Nancy Pelosi o Chuck Schumer. Forse una buona chiave di lettura della presente situazione potrebbe essere proprio la trasformazione del partito dell’asinello in qualcosa che di “americano” (nel senso del cosiddetto eccezionalismo americano) non ha quasi più nulla. E allora probabilmente non dovremmo più parlare di due Americhe ma di una sola, quella di Trump e dei conservatori, che combatte contro l’altra metà del Paese, che oramai altro non è se non un nemico interno che odia profondamente l’America e ciò che essa rappresenta, e che, Dio solo sa perché, tenta in tutti i modi di distruggerla. Certo, forse sarebbe troppo chiedere alla Peggy Noonan che abbiamo imparato ad amare di ammettere o accettare che le cose stanno così. Una realtà decisamente troppo amara per una con la sua storia. Ma noi ce la possiamo fare. Ce la dobbiamo fare.