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Les yeux des pauvres (gli occhi dei poveri) della povera vecchia megera Roma

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Esiste un poemetto di Baudelaire. Si chiama “Les yeux des pauvres” (Gli occhi dei poveri). E’ un piccolo grande capolavoro che descrive la povertà in Francia di fine ottocento, nella Parigi scintillante delle patisseries dove i piccoli borghesi dell’epoca gustavano le loro paste seduti ai tavolini e, di fuori, i bambini delle famiglie povere si attaccavano con le mani e il naso alle vetrine per ammirare e bramare quello che non potevano avere. Il poemetto venne ripreso dai Cure nel 1987 e trasformato in un altro capolavoro, “How Beautiful You Are”, brano inserito nell’album “Kiss me, Kiss me, Kiss me”.

Il poemetto di Baudelaire è perfettamente applicabile alla Roma contemporanea. Il Centro Storico brulica di occhi (e corpi) dei poveri che dormono nei cartoni, davanti alle chiese, alle vetrine dei negozi chiusi. Zingari che ruminano nei cassonetti in ogni quartiere per rivendere la loro lercia mercanzia negli improvvisati mercatini (ce n’è uno il venerdì, davanti alla Moschea sotto Villa Ada, dove alla mercanzia dei venditori maghrebini o medio orientali si aggiungono i tavolacci improvvisati dei Rom con la loro merce raccattata dall’immondizia).

E’ tutta Roma che è diventata una vecchia megera povera che si avvicina col naso e le mani rugose alla vetrina/specchio della capitale d’Italia che fu, per ammirare e bramare il dolcetto che qualcuno le ha portato via. E’ una Roma incanutita in cui ogni vicolo è ormai preda di turisti distratti (perché attenti solo alle vestigia del passato e non vogliono accorgersi del presente) e poveracci disorientati. Di lavoratori stranieri (pagati quattro spicci) che non hanno nessuna intenzione di romanizzarsi e gestori di attività che non hanno nessuna intenzione di assumere romani (che non possono pagare quattro spicci).

E’ una povertà che nei quartieri di periferia dà nutrimento alle baby-gang meticce, alle adult-gang della nuova ‘Ndrangheta padrona della città (nonostante la sceneggiata di Mafia-Capitale buona per far vendere qualche libercolo ai giornalisti di nera e girare filmetti ammiccanti, il famoso fascino del male). Una Roma disseminata di fortezze di immondizia che s’innalzano da strada a strada come bastioni nauseabondi a difesa di un declino di cui si fanno vessilli.

I romani, bontà loro, inviperiti per le malefatte di decenni, ormai un ventennio, di quella sinistra di governo capitolino progressista e apericenata ma scollegata dal reale e partecipe solo del suo autocompiacimento da grande schermo, erano rimasti scioccati quando avevano saputo che due kattivoni malavitosi tenevano i politicanti per il collo: hai visto? (avevano finalmente esclamato) che ti avevo detto che era tutto un magna magna. Così si erano affidati ai girotondini del grillo, una flotta di piccoli elfi arrabbiati, più simili ai puffi che ai gollum tolkeniani, che promettevano sfraceli giustizialisti, vendette, tabule rasa, ‘mo ve famo vede’ noi come se governa, etc etc.

Ma loro erano (e sono), come ho già ribadito altre volte, semplicemente i curatori fallimentari, gli spazzini preposti a gettare gli ultimi rifiuti in fondo alla scarpata, possibilmente senza far troppo clamore. Loro erano (sono) i nanetti della storia cui hanno raccontato la favola del lupo cattivo e si sono innamorati di cappuccetto rosso. Senza sapere che sotto quel cappuccio c’era la strega cattiva che li aveva ipnotizzati, costringendoli a fare il lavoro sporco che nessuno si sarebbe mai preso la briga di fare. Finire definitivamente la città. Nullificarla. Azzerarla.

Roma è l’esperimento sociale per introdurre anche nel nostro paese la povertà come standard di vita. La povertà per i molti, e la ricchezza per i pochi, ovvio. I soliti pochi. I soliti che dalle colline con vista cuppolone hanno costruito i grillini come tanti golem, plasmandoli e ammaliandoli con le mele avvelenate dei loro orticelli della Farnesina.

Fossi un turista non verrei in questa città nemmeno se mi pagassero viaggio, vitto e alloggio. Invece, li vedi aggirarsi entusiasti per le strade di una metropoli defunta, incantati dalla vecchiezza dei ruderi e incuranti dell’asprezza insufflata nell’aria. Per lavoro, mi trovo spesso a contatto con gente di ogni provenienza. Gli americani, in particolare. Vivono nel loro fantastico mondo esotico. Oh my God, esclamano incantati davanti agli edifici di Campo de’ Fiori. O Mio Dio, penso io atterrito, ma non si accorgono dello scaldabagno gettato lì all’angolo di Piazza del Paradiso? No, non se ne accorgono. O, se lo fanno, è per folklore, anche quella è la bellezza esotica e straniera che vanno cercando. Noi, la periferia sottosviluppata del mondo che incanta per il suo passato. E che non ha presente, ma non fa niente. Il presente non è importante. Noi siamo les yeux des pauvres che si attaccano alla vetrina della pasticceria dei turisti che degustano e piluccano seduti ai tavolini in una dimensione astrale, e che ogni tanto, quando si accorgono che li stiamo guardando bramosi, ci dicono col massimo del candore: Oh My God, che meraviglia i vostri vestiti di stracci, fanno così… tipico.

Dall’alto dei colli i soliti burattinai ridono. Questa è la loro nuova creatura. Svariati doctor Victor Frankenstein che hanno plasmato mostriciattoli nuovi: meticci, spaesati, lavoratori al limite dello schiavismo dolce, obbedienti camerieri, tuttofare indefessi. L’esercito dei progressisti li difende in nome dei diritti umani (il diritto alla schiavitù, che meraviglia!), i discepoli del santone milanese messi al governo della città per spazzare via i malfattori, in realtà, obbediscono soltanto a ordini subdoli. Distruggete. Azzerate. Solo il vostro fervore cieco può farlo. Io vorrei leggere di nuovo Baudelaire e illudermi che tutto sia tremendamente romantico; in fondo la decadenza ha un che di romantico. Solo che quando le macerie ti cadono addosso, il romanticismo lascia spazio al dolore fisico. L’unico che non ti permette più di sognare. Che ti taglia di netto il presente da sotto i piedi. How beautiful you were, my town. Quant’eri bella mia città. Tu pure lo sai, lettore ipocrita, mio simile e fratello.