Lo confesso. Con rare eccezioni (penso al ricordo caldo, umano, e insieme nitido e a fuoco di Nicola Porro sul Giornale, o, su un altro piano, al profilo tracciato da Paolo Del Debbio sulla Verità), buona parte dei pezzi in memoria di Antonio Martino, scomparso sabato, mi sono sembrati appartenenti alla categoria delle occasioni mancate.
Qualcuno (penso a Repubblica) ha mancato l’occasione per avarizia, perfino post mortem: una colonnina frettolosa e marginale, una pratica da sbrigare senza perdere tempo né energie. Vicenda dolorosa ma in fondo prevedibile: una certa cultura italiana concepisce solo ciò che è interno al suo perimetro di “accettabilità” intellettuale e morale. E ciò che è fuori? Tamquam non esset, come se non ci fosse: scaraventato nella fossa dell’irrilevanza, del non essere. Da anni, invece, pagine su pagine per affaticarsi sull’ultimo sospiro dei comunisti ex, neo e post; lacrimosi paginoni per celebrare chiunque potesse o possa essere interno (o comunque utile) al “pantheon” (spesso all’hard discount) della sinistra. Ma per un eterodosso liberale non ci sono più di duemila sbrigative battute da nascondere in qualche angolo dimenticato: nemmeno la curiosità intellettuale di interrogarsi, di provare a capire, di ragionare sull’’”altro”. Amano parlare di “diversità”: ma quando incontrano un pensiero davvero differente, lo liquidano così.
Qualcun altro invece ha perso l’occasione perché prigioniero del solito “io, io, io”. Storia arciitaliana anche questa: presenzialismo burino con vista sulla salma, tentativo superficiale di accreditare una qualche parentela intellettuale con la persona scomparsa, ma più che altro ai fini di veloce self promotion. E la prossima volta, senza indugio, avanti con un’altra salma. Non si butta niente.
Qualcun altro infine (spesso in buona fede, il che aggrava la gaffe) ha parlato di “provocazioni” a proposito del pensiero di Martino. Ma quali “provocazioni”? Amici: era una visione. Martino non è stato solo un economista, e nemmeno solo un esponente politico, purtroppo più rispettato che ascoltato. Martino è stato invece – a mio avviso – uno dei più importanti intellettuali italiani degli ultimi cinquant’anni, e per distacco l’intellettuale liberale più rilevante nel nostro Paese dagli anni Settanta in poi.
La compattezza, l’integrità e la profondità della sua visione sono sotto i nostri occhi: diffidenza nei confronti del big government (e, a ben vedere, pure nei confronti del government); propensione, su tutto, all’allargamento della sfera della decisione privata e alla compressione di quella pubblica e collettiva; un euroscetticismo in nome della libertà, contro il costruttivismo e il superstatalismo dell’Ue (altro che clamoroso equivoco, tipico dei “comunisti di destra”, dell’inesistente “Europa neoliberista”…); la capacità di tenere sempre insieme la libertà economica e la libertà senza aggettivi.
E poi c’era un talento speciale in Martino: quello di farsi capire, anche con l’aiuto di una battuta, di un sorriso. Proprio come il suo maestro Milton Friedman, Martino non aveva una visione elitaria e sacerdotale, ma aveva l’obiettivo di farsi comprendere dal 100 per cento della common people, di far “arrivare” a tutti il suo messaggio, di popolarizzarlo.
Si dice che il centrodestra abbia spesso usato in passato le sue parole senza metterle in pratica. Ed è purtroppo tragicamente vero. Eppure, perfino in questa dolorosa constatazione, c’è una lezione positiva: quelle parole erano e sono vincenti, si sono dimostrate capaci di persuadere, di scaldare i cuori di un’ampia maggioranza sociale, di mobilitarla e motivarla. Poi, la mancanza di convinzione di un ceto politico casuale e improvvisato non ha saputo, potuto o voluto dar seguito a quell’impianto. Ma ciò non toglie che quella visione resti, e mantenga un’efficacia e una freschezza che consigliano di riproporla, di rilanciarla, in ogni sede: politica, mediatica e culturale. Si può e si deve tentare ancora, nonostante tutto.