C’è da rimanere sconcertati! In un lungo articolo, pubblicato su Il Dubbio il 3 luglio u.s., “La pandemia ha ucciso le frontiere, ora serve una politica mondiale”, traboccante di retorica fogliante (quand’è che Claudio Cerasa gli spalancherà le porte del suo quotidiano?), Ugo Intini, dopo aver descritto l’America di Trump come l’inferno sulla terra (“Le morti soprattutto di poveri e di neri; l’eccesso di differenze sociali e razziali, il degrado dei servizi sociali e soprattutto della sanità pubblica; l’iper liberismo; un sistema istituzionale dove il mancato coordinamento tra i singoli Stati federali ha aggravato la pandemia”), scioglie alla Cina “un cantico che forse non morrà”, considerando il fertile terreno dell’antiamericanismo su cui hanno arato abbondantemente il fascismo, le sinistre marxiste, il Sessantotto.
“Mentre Washington declina, Pechino sale. Da tempo si contano gli anni (sempre meno) che ci separano dal momento in cui il Pil cinese supererà quello americano. Da tempo (e il caso Huawei è la punta dell’iceberg) la tecnologia cinese riduce le distanze con noi. Alibaba raggiunge Amazon, Tik-Tok insegue Whatsapp e Twitter. Adesso il “king flu”, come dice Trump, è nato sì a Wuhan, ma è stato contenuto più rapidamente e meglio. Soprattutto, la Cina si avvia a essere l’unico grande Paese dove nel 2020 il Pil avrà un segno non negativo ma (sia pure disastrosamente meno del previsto) positivo. Se, come spera, il vaccino cinese arriverà presto, già Pechino annuncia che lo metterà a disposizione di tutti (e il Terzo mondo certo se lo prenderà), realizzando così uno straordinario successo propagandistico. La stretta stessa su Hong Kong è un passo che prima del virus forse i leader cinesi non avrebbero osato”.
Che ci si trovi dinanzi alla più grande potenza totalitaria dei nostri giorni; che le riforme volute da Xi Jinping – vedi gli articoli scritti da Michele Marsonet su Atlantico – comportino il superamento di quel pragmatismo che i suoi predecessori avevano adottato, con qualche sollievo dell’Occidente; che grazie alla Cina – alle sue carenze sanitarie, alla sua cultura gastronomica, che vede delle ghiottonerie in pipistrelli e pangolini, alla sua consegna del silenzio costata forse la vita al medico che per primo diede l’allarme del coronavirus – si sia propagato il virus; di tutto questo nemmeno una parola nell’inno mondialista di Ugo Intini. Se a Wuhan il “kung flu” “è stato contenuto più rapidamente e meglio”, perché non pensare a un Nobel sanitario per le nazioni virtuose, gestito dall’OMS e dal Dr. Tedros Adhanom Ghebreyesu, al quale il tracotante Trump non vuol dare neppure un centesimo?
Nel suo delirio cortigiano (peraltro gratuito e tanto più incomprensibile), non esclude affatto che la Cina troverà il vaccino antivirus e lo metterà a disposizione di tutti. A quel punto dovremo prostrarci tutti davanti all’Impero maoista e dimenticare l’ecatombe di vite umane, lo sconquasso delle economie, il lockdown, la chiusura a centinaia di migliaia di aziende e di attività commerciali etc… E Hong Kong? “È un passo che prima del virus forse i leader cinesi non avrebbero osato”, un errore, quindi, ma dettato dal successo, la hybris del vincitore che non sempre riesce a contenersi e che, comunque, non può lamentarsi se Intini deve dargli un buffetto sulla guancia. D’altra parte, i dissidenti dell’ex colonia britannica possono sempre contare sull’accoglienza (fino a tre milioni!) assicurata dal perfido Boris Johnson, rappresentante di una potenza in declino, e degno compare dei peggiori populisti in circolazione, da Orban a Bolsonaro.
Il caso Intini fa davvero riflettere: non solo sulla “servitù volontaria” innata nella political culture nostrana (Franza o Spagna purché se magna, usciti di scena gli Stati Uniti affidiamoci alla Cina) ma, altresì, sulla sua immarcescibile attitudine retorica. Nessuna voglia di conoscere il mondo, nessun tentativo di fare i conti con la realtà. La risposta ai nostri tanti problemi è una sola: “Una globalizzazione più umana, meno dominata dal privato e dal profitto individuale immediato”. Come arrivarci? Non è facile, risponde il buon retore non dimentico della sua “acculturazione socialriformista”: le nostre società sono complesse e occorre, quindi, pensare a soluzioni ardite che nessuno finora ha saputo proporre. Già, sono complesse, troppo complesse, e in questa complessità s’annega il pensier nostro e il “naufragar [ci] è dolce in questo mare“.