Oltre al concerto (vedi episodio precedente), in quel 1987 – sempre di fronte alla Porta di Brandeburgo – succede un’altra cosa importante. Un discorso. Ronald Reagan, quarantesimo presidente degli Stati Uniti, lo pronuncia nel pomeriggio del 12 giugno con il Muro sullo sfondo. Le guardie della DDR osservano dalle torrette con il cannocchiale, mentre una folla di cittadini tedesco-orientali viene ricacciata indietro dalla polizia quando tenta di avvicinarsi al confine per ascoltare la sua voce dagli altoparlanti. Reagan parla con calma, cita i suoi predecessori recatisi a Berlino durante la Guerra Fredda, Kennedy su tutti, autore di un altro famoso discorso più di vent’anni prima, ma anche Carter. Parla della “cicatrice” che divide la città, dei venti di cambiamento che provengono da Est, in riferimento a Gorbachev. Poi l’affondo, che rimarrà nella storia per quello che accadrà poco più di due anni dopo: “Mr. Gorbachev, tear down this Wall!”. La folla di Berlino Ovest applaude e sventola bandiere americane ma paradossalmente l’invocazione non suscita in quel momento l’attenzione che il tempo le avrebbe poi restituito. Il discorso viene relegato nelle pagine interne dei quotidiani statunitensi ed europei, assuefatti – come quasi tutti – allo status quo e a certa retorica senza risultati.
Quelle parole non sono in realtà una sfida, come molti interpreteranno accusando il cowboy di “provocare il nemico”. Sono un appello all’uomo che Reagan identifica come artefice, in parte suo malgrado, di un cambiamento reale nelle relazioni Est-Ovest. Un capolavoro di equilibrio, che accontenta gli irriducibili dell’anticomunismo in patria mentre riconosce a Gorbachev il cammino percorso e gli indica la strada per completare l’opera. Allo stesso tempo è un messaggio ai tedeschi dell’Est e a tutta l’Europa Orientale: la svolta è possibile e la democrazia americana è con loro. Un discorso che non viene capito dai contemporanei e che per poco rischia di non essere nemmeno pronunciato. È proprio la famosa frase a non piacere al Dipartimento di Stato e al Consiglio di Sicurezza Nazionale, che la considerano “goffa” e “inutilmente provocatoria”, in un’epoca in cui la distensione e la relazione personale tra i due leaders stava dando i suoi frutti in termini di disarmo nucleare. Ma Reagan capisce che proprio quel nuovo clima permette di lasciarsi alle spalle un ventennale immobilismo e di osare. Al suo speechwriter, costretto a riscrivere sette volte la bozza, e al vice capo di stato maggiore che lo accompagna fino alla porta di Brandeburgo, il cowboy spiega che il presidente è lui e che la frase rimarrà così come è stata concepita originalmente. Il Muro non cadrà grazie a quel discorso, ma quel discorso rimarrà per sempre associato alla causa della libertà nell’Europa orientale e sarà parte integrante dell’identità democratica dell’Occidente. Riascoltare quelle parole è, nell’attuale crisi di coscienza delle democrazie liberali, un balsamo riconfortante.