Dopo l’annuncio del via libera per i rifugiati tedesco-orientali in Ungheria, il primo giorno varcano la frontiera più di 8.000 persone e tre giorni dopo sono già 40.000. La “grande fuga” è cominciata e giornalisti e televisioni da tutto il mondo accorrono alla frontiera per trasmettere la fine di un’epoca, in diretta.
A Berlino Est nei palazzi del potere si mescolano rabbia e incredulità per “l’attacco al socialismo” condotto dai “traditori” ungheresi in combutta con il governo di Bonn. In gioco c’è la sopravvivenza della Germania orientale e della sua nomenklatura, sempre più spiazzata dagli eventi. La reazione si fa attendere ma arriva finalmente a fine settembre, quando Honecker esce dall’ospedale in cui era ricoverato per un intervento chirurgico. Il leader della DDR chiede e ottiene dall’alleato cecoslovacco Miloš Jakeš la chiusura del confine con l’Ungheria, affinché nessuno possa raggiungere l’Occidente attraverso Budapest. Migliaia di emigranti in transito si ritrovano bloccati all’interno del territorio cecoslovacco. Alcuni fanno marcia indietro, altri si rifugiano nell’ambasciata della Repubblica Federale Tedesca a Praga. La polizia chiude le vie d’accesso al palazzo Lobkovitz ma i tedeschi riescono, attraverso passaggi laterali, a introdursi nei giardini della sede diplomatica. Presto il fiume diventa una marea, uomini, donne e bambini accampati.
Scene simili si verificano all’ambasciata della Germania Ovest a Varsavia, che diventa il secondo versante della “grande fuga”. A quel punto Jakeš comunica a Honecker che la sua precedente decisione non può più essere mantenuta e che Berlino deve trovare una soluzione. I colloqui internazionali si succedono e alla fine il Politburo della DDR decide di “liberarsi” dei profughi attraverso treni speciali diretti da Praga alla Repubblica Federale Tedesca. Con una condizione: che i convogli attraversino il territorio della Germania Est. La decisione sa di trappola (che succederà una volta entrati in territorio orientale?) ma nei fatti si rivela un boomerang (l’ennesimo) per il governo comunista di Honecker. L’esodo di 12.000 rifugiati su 14 treni rappresenta per loro la libertà ma per la DDR è la viva immagine della sconfitta. Lungo il tragitto migliaia di tedeschi-orientali si affollano alle stazioni cercando di salire sui treni ma vengono allontanati brutalmente dalla polizia, soprattutto a Dresda, Karl Marx Stadt (oggi Chemnitz) e Reichenbach. Così, mentre il ministro degli esteri della RFT Genscher annuncia tra grida di giubilo dal balcone dell’ambasciata che i profughi possono partire, nella DDR si preparano le manifestazioni di protesta che abbatteranno il regime in poco più di un mese.
Ispirati dalla fuga autorizzata dei propri connazionali, negli stessi giorni 20.000 tedeschi dell’Est attraversano il Danubio tra la Cecoslovacchia e l’Ungheria, mentre viene organizzato un ponte aereo tra Varsavia e Francoforte per evacuare gli altri rifugiati in Polonia. Alla luce degli avvenimenti nelle diplomazie occidentali comincia a farsi largo la prospettiva di una futura riunificazione tedesca. Mitterand la giudica “impensabile”, Margaret Thatcher “indesiderabile”, mentre Bush dice di “non temerla”. Kohl continua a tessere la sua tela, l’unico a comprendere fino in fondo la portata e il significato storico di quanto sta accadendo. Ufficialmente non ne parla ancora ma, se la DDR imploderà, l’unificazione non sarà una semplice opzione, ma una scelta obbligata. Il tempo confermerà questa visione.