Il vero corto circuito del mondo intero, non solo del mondo occidentale, sta nella frase dell’attaccante senegalese Demba Ba, in forza alla squadra turca del Basaksehir:
“Perché ti riferisci alle persone di colore chiamandole ‘this black guy’, mentre per i bianchi non dici ‘this white guy’ ma solo ‘this guy’?”.
L’accusato è il quarto uomo, il rumeno Sebastian Coltescu, che avrebbe dato del “negro” (usando il termine “negru”, “nero” in romeno) all’assistente tecnico turco Achille Webo, per indicarlo all’arbitro centrale che voleva espellerlo per proteste durante la partita di Champions League PSG-Basksehir di martedì 8 dicembre scorso allo stadio di Parigi. Ora. Fermo restando che l’Uefa svolgerà una inchiesta sull’accaduto, proviamo a ragionare.
Ma davvero siamo a questo livello? Ma davvero una parola del vocabolario internazionale, utilizzata tranquillamente fino a qualche decennio fa, suscita le ire improvvise di persone che evidentemente sono intrise di odio politicamente corretto fino al midollo? Come spiegavo su Atlantico in un mio precedente pezzo, la parola negro non è una parolaccia, viene dal termine negroide che indica una etnia con specifici connotati fisici ed epidermici. E non c’è assolutamente nulla di male a utilizzarla. Se io dico caucasico so che mi riferisco a un certa etnia, se dico asiatico a un’altra, se dico negroide a un’altra ancora. Semmai, se devo trovarci un dispregiativo, sarà nel modo in cui utilizzerò quella parola. Ma è un discorso vecchio, trito e ritrito e che oggi ormai serve solo come grimaldello per indirizzare politicamente determinate vicende, situazioni, condizioni. Le parole di Demba Ba sono, per quanto mi riguarda, di una gravità assoluta, ben peggiori dell’utilizzo del termine negru da parte del quarto uomo. Il calciatore senegalese in pratica ci sta dicendo che perfino la parola black è bannata dal consesso internazionale.
Mettiamola così allora. E se il quarto uomo fosse stato un nero che si fosse rivolto all’arbitro per indicare un calciatore bianco col termine “quel bianco lì?”, sarebbe scoppiata questa ridicola cagnara? Ovviamente no. E allora? E allora c’è che questi episodi sono ormai il grimaldello, come detto sopra, di un movimento politico che sta tentando, riuscendoci, di ridurre il mondo in schiavitù. La schiavitù non è solo quella economica. Non è solo quella sanitaria, col patentino anti-Covid per poter girare liberamente. È anche e soprattutto quella linguistica. Non serve qui fare un processo alle intenzioni al quarto uomo. Non serve capire se il suo intento, nell’apostrofare Webo che, ricordiamolo, doveva essere espulso, fosse discriminatorio, offensivo o razzista (ci penserà l’Uefa a quello). Serve focalizzarsi sulla dittatura neolinguistica che vorrebbero imporci, e ci stanno riuscendo perfettamente.
Talmente bene che perfino uno sciacallo come il dittatore turco Erdogan è salito sul carro degli accusatori. Lui, che non riconosce il genocidio degli armeni perpetrato dai turchi dal 1915; lui che supporta, vergognosamente, i jihadisti in Siria e in Libia, gente che si è macchiata, fra gli altri, di uno dei peggiori crimini del nuovo secolo, il genocidio degli Yazidi. Lui, simbolo di quella Fratellanza Musulmana bandita in diversi Paesi del mondo perché considerata organizzazione terroristica. Talmente sciacallo da twittare il suo appoggio a quell’altro movimento di sciacalli per antonomasia, il movimento Black Lives Matter, composto dagli squatter del progressismo internazionalista, dai rimasugli del marxismo militante e panafricanista, razzista contro i bianchi, filo-islamista di fatto.
Come detto, l’Uefa farà la sua indagine, ma per quanto ci riguarda, l’episodio in sé non ha nulla di razzista. Se la parola nero in rumeno è negru non è un problema del quarto uomo, così come se la parola nero in spagnolo è negro non è un problema della lingua spagnola. Che facciamo la cambiamo per dar retta a quattro mentecatti illetterati proto-marxisti? Se poi l’abbia usata in senso spregiativo è tutto da dimostrare. Chi, come il sottoscritto, opera nell’ambito, sfortunato di questi tempi, della cultura, ha il dovere morale di reagire a questa violenta ondata di repressione, nello specifico a questa imposizione di una neo-lingua e nella cancellazione di un linguaggio, o di un modo di dire, del passato considerati, a torto, razzisti e/o discriminatori.
La cosa paradossale è che all’interno del movimento BLM sostenuto dal Sultano non di Babilonia ci sono donne che gridano alla discriminazione indossando il velo islamico, quel Hjiab che più di ogni altro indumento ormai rappresenta la sottomissione della donna (della femmina e della sua femminilità) al maschio. Oggi i valori peggiori espressi dal patriarcato sono quelli della religione islamica. Sono valori, o presunti tali, che discriminano le donne e gli omosessuali. Gli stessi che esprime Erdogan, che viene a farci la lezioncina morale sul razzismo e sulle discriminazioni. No pasaran, dicevano i compagni anni fa. No pasaran, diciamo noi oggi sottraendo loro una bella espressione spagnola. Appropriazione culturale, alla faccia vostra.