Il taglio che ho dato finora a questa rubrica – che prende il nome dal titolo di un libro di Luigi Barzini Jr. – è stato di render conto di quello che si scrive e si pensa negli Stati Uniti, ritenendo che da operazioni culturali siffatte il dibattito politico italiano abbia molto da guadagnare, data la circostanza che quella nazione è la frontiera più avanzata della democrazia e della libertà su questo pianeta. Ma in questi giorni sembra che i rapporti si siano capovolti, sia pur temporaneamente, alla luce del fatto che il voto italiano è stato una tale scossa che il mondo, America compresa, non ha potuto fare a meno di prenderne atto e di rivolgere uno sguardo molto meno distratto del solito alle vicende italiche.
Uno dei pochi a non farsi sorprendere da quello che sarebbe accaduto è stato Steve Bannon, che qualche giorno prima del voto ha fatto rotta verso la capitale italiana, dove ha incontrato “riservatamente” alcuni leader politici. In un’intervista al Corriere della Sera del 3 marzo scorso, l’ex stratega di Donald Trump ed ex direttore di Breitbart News – ma al di là di essere un ex-qualcosa egli è tuttora un personaggio di primissimo piano nel panorama politico-culturale o filosofico-politico americano, in quanto profeta e instancabile animatore dell’Alt-Right – ha spiegato perfettamente il motivo della sua presenza con queste parole:
“Ho lavorato per costruire un movimento populista nazionalista in America per dieci anni, sono entrato nella campagna di Trump quando rimanevano solo 85 giorni, stavano perdendo di brutto. Ma io sapevo che avrebbe vinto. Vedevo la risonanza tra la gente, mentre alle élite questo sfuggiva, e penso che lo stesso stia succedendo in Italia. Gli italiani si considerano spesso provinciali nella politica mondiale, ma non è così: siete sulla cresta dell’onda, un banco di prova fondamentale del potere della sovranità, di cosa significhi nell’era moderna, e questo è esemplificato dalla questione dei migranti, poiché tutti i problemi del Medio Oriente e dell’Africa sono stati scaricati dall’Ue sull’Italia e la gente ne ha avuto abbastanza, rivuole la propria sovranità. Questa elezione è cruciale per il movimento populista globale. Per me la cosa più importante è che, se sommi i sondaggi, siamo vicini al 65 per cento, quasi due terzi del Paese, che in qualche modo appoggia il messaggio antisistema di gruppi populisti dal centro al centrodestra, dai Cinque Stelle alla Lega a Berlusconi e Fratelli d’Italia”.
L’esito elettorale, un paio di giorni dopo, ha confermato ben oltre le più rosee previsioni il trend indicato dai sondaggi ed auspicato da Bannon. Nel novero degli antisistema egli inserisce anche Berlusconi (“un grande leader” e “Trump prima di Trump”), e non penso sia molto lontano dal vero, malgrado a Bruxelles il mood verso l’ex Cavaliere sia cambiato non poco ultimamente.
Dopo Roma, Bannon è andato a Zurigo, dove martedì scorso ha parlato delle “implicazioni globali della rivolta populista” in un incontro pubblico con Roger Köppel, direttore della rivista di destra Die Weltwoche. “Per vedere il futuro dell’Ue,” ha sentenziato, “bisogna guardare al voto italiano. Salvini lo ha detto: l’Euro non sopravvivrà. Tutto è nelle mani dei cittadini. E l’onda populista è solo all’inizio, perché la Storia è dalla nostra parte”. E poi ha aggiunto:
“I britannici hanno votato e ora sono fuori. Se votassero gli italiani, non so cosa succederebbe. A Bruxelles e alla Bce devono iniziare ad ascoltare i cittadini. Quando hai un’ondata di migranti che si riversa sul Sud Italia, e il peso cade tutto sugli operai italiani, dovresti capire che qualcosa non va. L’immigrazione va gestita in Africa, non in Italia.”
Insomma, l’americano Steve Bannon guarda all’Italia come più o meno noi dovremmo guardare agli Stati Uniti. Dopo tutto è vero che Trump è il Silvio Berlusconi d’America, così come è vero che in qualche modo Matteo Salvini è il Donald Trump italiano (come sui social d’oltreoceano ormai si proclama a gran voce). La vita, del resto, è un continuo imparare reciprocamente, gli uni dagli altri. Perché questo non dovrebbe esser vero anche in politica? Al di qua e al di là dell’Atlantico, poi, il filo che ci unisce può sembrare a volte più robusto, altre più sottile (in politica, ad esempio, dove le somiglianze sono meno percepibili delle differenze). Ma ci sono momenti nella storia in cui la comune appartenenza a quell’universo prodigioso che chiamiamo Occidente risplende come la stella polare nelle notti più oscure: più nitida che mai. Cosa importa chi impara da chi? l’importante è navigare, possibilmente senza andare a sfracellarsi sugli scogli.