Thatcher Sovranista/1 – “Fui destituita perché avevo risposto all’Europa: No; No; No!”

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La prima puntata di una serie dedicata all’euroscetticismo di Margaret Thatcher. Testi e ricerca di materiale video (oltre 2 ore di filmati attualissimi per comprendere le orgini della Brexit, del cosiddetto sovranismo e la natura dell’esperimento Ue), a cura di @Italians4Brexit, che ringraziamo

Sono trascorsi quasi trent’anni da quel novembre 1990 in cui Margaret Thatcher, determinata a non cedere al compromesso sull’Euro siglato tra i suoi ministri, fu rimossa, dopo oltre undici anni di governo e tre elezioni vinte, pochi giorni dopo l’imboscata tesale a Roma dal clan cristiano-democratico continentale e dal cristiano-socialista presidente della Commissione europea Jacques Delors, con la complicità della componente europeista dei Tory guidata dall’ex ministro degli esteri Geoffrey Howe.

Trent’anni dopo, la religione europeista è una fede morente. L’Europa è un continente in declino economico con fugaci periodi di flebile ripresa, prontamente assassinati dalle divergenze tra gli interessi in politica monetaria dei diversi membri. Sono palesi a tutti il risentimento, la sfiducia, il disprezzo, la gelosia, financo la paura, che le nazioni europee nutrono l’una verso l’altra. Nessuno tenta più – almeno credibilmente – di propagandare l’Europa come foriera di solidarietà e prosperità; si argomenta invece che abbandonare il sistema determinerebbe un’apocalisse economica e finanziaria. E chi lo fa potrebbe persino avere ragione, data la folle scelta di costruire un’unione monetaria instabile, suscettibile di esplodere anche solo tra mani amorevoli, nella speranza che, secondo la teoria neo-funzionalista, qualunque crisi sarebbe stata prontamente risolta con maggiore integrazione.

La condizione attuale dimostra quanto fosse nel giusto la Thatcher nel descrivere l’Europa come “… il risultato di un piano; un classico progetto utopistico, un monumento alla presunzione degli intellettuali, un programma il cui inevitabile destino è il fallimento, e di cui solo le dimensioni finali dei danni restano da vedersi.”

Quando Bryan Cartledge abbandonò il proprio incarico presso la diplomazia britannica nel settembre del ’79, la lettera lasciatagli dalla Signora Thatcher era già particolarmente eloquente. “Sono progressivamente sempre più disillusa dalla Comunità Economica Europea. Dovremo combattere sul serio sul bilancio europeo e in un modo o nell’altro prevalere. Quel denaro ci serve.” La Signora, benché non avesse ancora realizzato la minaccia posta dal progetto europeo all’indipendenza del suo Paese, già a stento lo tollerava. Le era del tutto aliena quell’istintiva benevolenza per le istituzioni comunitarie che era simbolo di raffinatezza nell’élite britannica. Michael Palliser, ambasciatore del Regno presso la Comunità, l’aveva incontrata nel ’75 fresca leader dell’opposizione, descrivendola come “eccezionalmente ignorante e con radicati pregiudizi”. Ciò che il cosmopolita ambasciatore aveva reputato particolarmente disdicevole era la sua opinione che i francesi fossero straordinariamente scaltri, e dunque da ostacolare il più possibile nelle trattative. “Sono più furbi di noi”, gli aveva detto. “Ci metterebbero i piedi in testa.”

Margaret Thatcher era un’anomalia non solo per i ministri e funzionari britannici, ma anche per i leader europei. La sua richiesta di un “rebate”, uno sconto sui contributi versati dal Regno Unito, non preannunciava solo una furiosa battaglia su una somma di denaro, ma fu percepita come offesa quasi teologica, dal momento che ella insisteva a riferirsi a quei contributi come “il nostro denaro”, talvolta “il mio denaro”, urtando la sensibilità religiosa degli europeisti, la cui fede stabilisce che la percentuale dell’Iva inviata dai Paesi membri alla Comunita rappresenti “risorse proprie”, e non possa essere ricondotta al singolo Paese membro e dar luogo a calcoli sui contributi netti.

Al Consiglio europeo di Dublino del 29 novembre 1979, la Signora Thatcher intendeva presentarsi senza alcun riguardo per la sensibilità europeista dei suoi interlocutori. Edward Heath, l’ex primo ministro Tory cui aveva sottratto la leadership del partito dopo due sconfitte inflittegli dai laburisti, aveva accettato oneri significativi pur di condurre il Regno Unito nella Comunità europea, ma dopo sei anni l’umore nel Paese e nel partito era differente, e i sacrifici richiesti in patria dal nuovo governo erano incompatibili con i doveri ereditati verso la Comunità economica europea. Due giorni prima, presagendo un’eccessiva animosità, il laburista presidente della Commissione europea Roy Jenkins le telefonò consigliandole calma, ma senza successo. La Thatcher reiterò la propria posizione, rammaricandosi anzi di non pretendere che il Paese diventasse ricevente netto dal bilancio della comunità. In Dublino, diede istantaneamente inizio alle ostilità. Pretese di parlare a braccio, di modo da avere maggiore vigoria. A cena, tenne i colleghi capi di governo a tavola per quattro ore. Secondo Jenkins, parlò senza pause, ma non senza ripetersi. La sua fu, secondo il ministro degli esteri Carrington, “un’invettiva”. Il presidente francese Giscard concordava: “Fu spiacevole, perché non era una conversazione; era una ripetizione”. Le fu offerto il 35 per cento. Lei, che pur essendosi promessa di ottenere tra il 66 per cento e il 75 per cento, pubblicamente aveva preteso il 100 per cento, commentò insoddisfatta che era “appena un terzo della pagnotta”. Sentiva tutti contro di lei, e lo detestava. “Credevamo di essere entrati in un sistema equo”, scrisse tra i suoi appunti. Tornata in patria, fu accolta favorevolmente dal suo popolo e dal suo partito, e raddoppiò le proprie energie per il prosieguo della battaglia. Tra i compromessi avanzati dal Foreign Office, v’era quello di connettere il “rebate” a concessioni sul petrolio del Mare del Nord, risorsa che in quegli anni difficili stava contribuendo a sanare la bilancia dei pagamenti. La sua reazione fu furiosa: “L’idea che dovremmo sacrificare il nostro principale asset, per riavere indietro il nostro stesso denaro, è di quelle che potranno sembrare valide al Foreign Office, ma di certo non a me.”

Con l’arrivo del nuovo anno, il clima mutò. La stasi delle trattative aveva bloccato del tutto l’azione della Comunità, ed era opinione comune che un accordo andasse trovato. In Italia, ad Andreotti, che l’aveva definita “una padrona di casa che intima sgradevolmente all’inquilino di pagarle l’affitto”, era succeduto l’amabile anglofilo Cossiga, per di più da gennaio presidente di turno del Consiglio europeo.

Dopo il fallimento di un nuovo summit nel Lussemburgo, un compromesso fu allestito dal governo italiano e recepito da Carrington: si trattava di uno sconto triennale del 66 per cento, cui sarebbe poi seguito un accordo di lungo termine. Fortunatamente per il moderato Carrington, la stampa continentale interpretò l’accordo come una vittoria per la Thatcher (“Europa britannica”, titolò Le Monde), ed un grande passo in avanti rispetto alle precedenti offerte. La Thatcher, sempre scettica del Foreign Office, era ancora insoddisfatta ed avrebbe volentieri continuato la propria guerra. Durante una discussione con lei, Carrington, alzatosi ma ancora intento a parlare, inciampò in una colonna dorica della sala del consiglio dei ministri, e rialzandosi commentò “Mio Dio! Sono sbattuto contro un altro oggetto irremovibile”. Tuttavia, priva di entusiasmo, accettò alfine l’accordo, che sfociò in quello definitivo del 1984 a Fontainebleau.

Benché generalmente ritenuto un successo per la Thatcher, l’affare mostra i prodromi di molti dei problemi che diverranno tossici nella parte finale della sua leadership. L’esperienza confermò in lei un certo risentimento per le modalità di funzionamento della Comunità. Dai suoi appunti appare esasperata (“Più leggo, più resto sconcertata”); su un testo di Howe sulle regole europee per l’approvazione dei rimborsi, commenta: “No! La procedura è ridicola; è fatta apposta per umiliare il nostro Paese”. Per lei, come per ogni euroscettico in formazione del suo e del nostro tempo, confrontarsi con l’Europa significava scoprire ogni volta come le fossero stati ceduti molti più poteri di quanto avesse sino ad allora creduto. La atterriva la questione fondamentale dietro ogni trattativa europea: in che misura fosse lecito sacrificare il principio di indipendenza nazionale per ottenere uno specifico vantaggio materiale, o l’influenza tanto cara al Foreign Office. Qualunque vittoria, per quanto consistente, sarebbe stata acquisita sacrificando l’interesse nazionale nel lungo termine.

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