Quanto Margaret Thatcher fosse insensibile all’incantesimo di quella religione laica dal nome Europa, e quanto lieta di irriderne i comandamenti nel perseguire gli interessi della propria nazione, è stato il tema del precedente episodio. In questo, protagonisti saranno l’abiezione del clero europeista, determinato a vendicarsi della miscredente, e la progressiva ossessione di Nigel Lawson per lo SME (il Sistema Monetario Europeo), il precursore dell’Euro, ossessione che condurrà alle difficoltà economiche e politiche che resero attuabile quella vendetta stessa.
La prima occasione per la vendetta delle forze europeiste fu accortamente allestita per il giugno 1985 dall’abilissima presidenza italiana del Consiglio europeo di Milano, il notevole duo Bettino Craxi (presidente del Consiglio)-Giulio Andreotti (ministro degli esteri). Obiettivo dell’amministrazione Thatcher sarebbe stato progredire nella costruzione del Mercato Unico evitando trattati euroromantici — per le regole della Comunità i trattati avevano particolare forza legale, al contrario dei relativamente inoffensivi testi ordinari — e dunque, dato che un trattato richiede una Conferenza Inter-Governativa (CIG), evitare CIG. A tal scopo la Signora Thatcher si mosse con largo anticipo: produsse un testo dal contenuto insolitamente euroentusiasta, ma legalmente innocuo, e concordò con il cancelliere Kohl di presentarlo a Milano, purché lui si dichiarasse contrario ad una CIG. Convinta di aver scongiurato pericolose modifiche dei trattati, Margaret Thatcher rimase comprensibilmente sgomenta quando, ventiquattr’ore prima del Consiglio, la cancelleria tedesca le comunicò che il giorno dopo Kohl, in accordo con la Francia, avrebbe presentato un progetto di trattato. Quel che lei non poteva allora sapere, ma che noi possiamo oggi ricostruire dalle biografie dei personaggi coinvolti, è che subito dopo aver visitato lei, Kohl aveva nel maggio ’85 incontrato Mitterrand sul Lago di Costanza. “Si sta allontanando dall’Europa”, aveva riferito al francese. Mitterrand concordava: “le pb c’est le gb” (“il problema è la Gran Bretagna”), commentò, con una formula non priva di una certa musicalità. Una settimana dopo, Teltschik per Kohl, ed Attali per Mitterrand, si erano recati a Roma per concordare con il loro omologo italiano Renato Ruggiero come eludere l’opposizione britannica. Per Ruggiero, era “inconcepibile che i capi di stato e di governo dessero l’impressione di cedere alle riserve della Thatcher”. Attali, secondo le note francesi, raccomandò assoluta segretezza sulle mosse concordate per Milano. Il mese successivo, dopo un bilaterale in cui il primo ministro italiano le era apparso “dolcemente ragionevole”, e d’accordo con lei sull’evitare una CIG, con una mossa spregiudicata Craxi indisse un voto proprio sulla convocazione di una CIG, il primo voto nella storia dei Consigli europei. Era questa la mossa concordata con Francia e Germania, e su cui Attali aveva raccomandato particolare segretezza. La Conferenza che tanto Margaret Thatcher aveva voluto evitare era infine stata convocata. Vi sarebbe stata revisione dei trattati, e il Mercato Unico cui era interessata sarebbe stato parte di un’agenda più ampia, euromaniaca, che non avrebbe potuto selettivamente escludere. Lei, disgustata, descriverà la CIG del successivo dicembre in questi termini:
“Monsieur Delors sollecitò all’adempimento dei due grandi sogni per l’Europa: un’area senza frontiere ed un’unione monetaria. Ogni esenzione o deroga che gli altri paesi invocassero, sembrava essere considerata una sorta di tradimento. Mi fu riferito che, tra un’occasione e l’altra, aveva denunciato ogni paese membro tranne l’Italia, il Belgio e i Paesi Bassi. Il secondo premio per l’eurovelleitarismo va agli Italiani. I signori Craxi ed Andreotti guardavano all’espansione dei poteri del Parlamento europeo come ad una pietra miliare dei loro principi federalisti.”
I lavori di quella CIG confluirono nell’Atto Unico Europeo. Con esso, i suoi nemici continentali ebbero un primo abbondante boccone della loro vendetta. E mentre ella negoziava in Europa, il suo Cancelliere stava minando le fondamenta della politica economica britannica. Questioni solo apparentemente tecniche si sarebbero presto rivelate essenziali, danneggiando gravemente le relazioni tra i due, l’economia del Paese, la sua stessa leadership.
Il Meccanismo di Cambio Europeo (in inglese ERM) è stato il braccio operativo del Sistema Monetario Europeo (in inglese EMS). La stampa e l’opinione pubblica italiana hanno sempre confuso i due e utilizzato l’acronimo del secondo, “SME”, e per comodità è quel che faremo anche noi in questa sede. La sua inquietante storia, imprescindibile per chiunque voglia comprendere le ostilità politiche e monetarie che da decenni dilaniano il continente europeo, è un tema che affronteremo forse nel dettaglio in un successivo episodio. Qui, per brevità, replichiamo la semplificazione adottata nel video intorno al minuto 4:15: lo SME è stato il precursore dell’Euro.
Proprio come il suo erede, si tratta di uno strumento politico camuffato come economico, parte di un programma per sovvertire l’indipendenza — politica ed economica — dei Paesi europei. Il consigliere economico principe della Signora Thatcher, il monetarista Alan Walters, ne era consapevole, e le raccomandò sempre di tenersene alla larga. In un’intervista che sono particolarmente lieto di aver rinvenuto, e che ho parzialmente incluso nella serie, confessa le tattiche quasi penelopèe che aveva suggerito alla Thatcher per rinviare ripetutamente l’entrata nello SME (14:45):
“Margaret seguì alla lettera i consigli formulati nel mio testo del 1981 (“quando l’ora sarà matura”); […] le mie condizioni erano perfettamente legittime sul piano economico, ma le si poteva sempre utilizzare come pretesto per rinviare l’entrata: abolizione dei controlli sui cambi, totale deregolamentazione dei mercati finanziari… persino adesso (anni 2000) sarebbero insoddisfatte!”.
Quest’uomo grandioso, cui si deve larga parte della rivoluzione thatcheriana, previde e denunciò le contraddizioni economiche dello SME. Atto politicamente scorrettissimo, per citare uno dei direttori di Atlantico, pari al mettere in dubbio l’Euro sino a qualche tempo fa; nemmeno la protezione della Thatcher poté salvarlo dalla vendetta dei media d’establishment, perpetrata da Sam Brittan del Financial Times, Legion d’Onore per propaganda pro-SME, e dai non meglio definiti editorialisti dell’Economist, che tentarono di ridicolizzarlo riferendosi a lui come “uno dei migliori trecento economisti dei trasporti al mondo”. Nel settembre 1985, Alan Walters era formalmente in America, ma aveva un filo diretto con Margaret Thatcher di cui era amico personale, e che continuava ad influenzare. Il Cancelliere — è bene ricordare che nel Regno Unito la carica corrisponde a quella di ministro dell’economia, e che si occupava al tempo anche di politica monetaria — Nigel Lawson aveva ormai deciso che, per quanto lo riguardasse, “l’ora fosse matura”, che fosse tempo di aderire allo SME. Chiese ed ottenne dalla Thatcher di parlarne il 30 settembre, ed organizzò l’intero establishment —Tesoro, Bank of England e City — contro di lei. Quel 30 settembre, la Thatcher era animata da particolare fervore: il fantasma di Alan Walters era percepibile nella stanza. “A voi l’onere di provare la necessità di un cambio di policy”, iniziò battagliera secondo l’archivio dell’economista Terry Burns. A turno il cancelliere, il governatore, il ministro degli esteri argomentarono in favore dello SME. Lei non arretrò di un centimetro. Quando Burns osservò che sulla base delle critiche di lei nello SME non ci si sarebbe mai entrati, ella replicò esplicitamente “proprio così”. Al che Howe replicò, tenendo fede alla propria fama di eurorintronato, “non si può restare indipendenti per sempre”; e lei ribadì — tenendo fede alla sua, di fama — “e perché limitare la nostra libertà di manovra? Argomento da deboli.” Seguì un altro appuntamento, in novembre, esteso ai ministri. Lawson si premurò di portare anche loro, preventivamente, tutti dalla sua parte. Ma Margaret Thatcher rimase irremovibile. “Era chiaro — ricorda David Norgrove, uno dei presenti — che avrebbe preferito dimettersi piuttosto che aderire allo SME”. Benché sconfitto, Lawson non si rassegnò. La questione divenne per lui un’ossessione, onnipresente e rovinosa. Decise che, se gli era impedita l’entrata nello SME, avrebbe optato per quanto di più prossimo ad esso fosse disponibile: ancorare ufficiosamente la sterlina al marco.
Ottobre 1986 vide una singolare congiunzione di eventi: la disoccupazione iniziò a calare per la prima volta dal ’79, i Conservatori superarono i Laburisti nei sondaggi per la prima volta dalle precedenti elezioni, la City di Londra attraversò quel “Big Bang”, programma di modernizzazione dei mercati finanziari, che le avrebbe permesso di tornare ad essere una contendente per la leadership finanziaria mondiale per la prima volta dal 1914. Margaret Thatcher, contesa da Reagan e Gorbachev, era al culmine del suo potere, ora apparentemente in grado di vincere la sua terza elezione consecutiva; l’entusiasmo per il “capitalismo popolare” era inarrestabile, ora che la vendita delle case popolari e le privatizzazioni stavano trasformando settori della tradizionale classe operaia laburista in thatcheriani. Nel maggio ’87, dopo i tagli alle tasse e la larga vittoria sui laburisti, l’ottimismo nel Paese si vedeva toccava annusava nell’aria. Dappertutto sbucavano nuovi imprenditori in cerca di nuovi mercati. Nell’anno 1988, il numero di nuove aziende registrate fu uno sconcertante 100,000. In un’economia tanto dinamica, la scelta di Lawson di ancorare la sterlina al marco non poteva che essere rovinosa. Il suo errore assicurò che i frutti della rivoluzione thatcheriana — un’economia con alti salari, alta produttività, alta occupazione — degenerassero in una bolla di consumi frenetici ed inflazione. Dall’87 in poi, quando la domanda interna era talmente forte da esigere un aumento dei tassi di interesse, Lawson era a tal punto determinato a conservare il legame col marco da rifiutarsi di alzarli e tagliarli invece due volte, in ottobre ’87 e febbraio ’88. La Thatcher si era ormai resa conto degli sforzi del suo Cancelliere per tenere artificialmente bassa la sterlina — o, se ne era sempre stata consapevole, aveva finalmente deciso che la situazione fosse troppo grave per tacere. La polemica divampò in marzo, quando nella Camera dei Comuni commentò, in riferimento a Lawson, “nessuno può resistere al mercato”. Ma lui non si era ancora rassegnato: non potendo più intervenire sul mercato dei cambi, tagliò ancora una volta i tassi di interesse: la terza, ad inizio maggio ’88. Le pressioni inflazionistiche erano però palesi, e neanche il Cancelliere poteva più nasconderle, pur non ammettendo la propria responsibilità: due settimane dopo averli tagliati per tenere giù la sterlina, li rialzò, per tentare di contenere l’inflazione. Ma era troppo tardi: in un’intervista alla radio Alan Walters predisse che Lawson, essendosi ostinato troppo a lungo a non restringere la politica monetaria, aveva condannato il Paese ad aumenti maggiori dei tassi di interesse in futuro. Avrà ragione.
Alla tipica maniera europeista, la disastrosa situazione causata dalla scelta di Lawson di accontentarsi dell’opzione rimasta più simile allo SME — non potendo aderire allo SME per la fiera opposizione del suo leader — fu spacciata dall’establishment — Financial Times, Economist, BBC e confederazione industriale — come conseguenza della testardaggine della Thatcher di opporsi allo SME. In conflitto con il proprio Cancelliere, dubbiosa della lealtà del suo ministro degli esteri, priva del supporto di Ronald Reagan, disgustata dalla politica filotedesca della nuova amministrazione Bush, il suo atteggiamento divenne più aggressivo, il suo tono più stridente, la sua ostinazione nel combattere quel mondo ostile ancora più marcata. La sensazione di essere stata tradita era tutt’altro che illusoria: da Londra a Bruxelles, nei salotti eurofanatici si iniziava a discutere della possibilità di spodestarla sulla questione SME. A fine ’88 Roy Jenkins, laburista ex presidente della Commissione, ascoltato da diversi funzionari brussellesi dichiarava che gli unici ostacoli rimasti tra Regno Unito e moneta unica fossero le convinzioni personali ed il prestigio di Margaret Thatcher: non esisteva alcun altro leader con coraggio ed autorità necessarie per tenerne il Paese fuori. Non risulta che Jenkins sia andato oltre, sicché dovremo ricordarlo noi: essendo la Signora Thatcher dotata di un veto, era anche l’unico ostacolo rimasto tra moneta unica e l’Europa intera. Sbarazzarsene divenne la priorità.
Fu Howe ad assumere l’iniziativa. L’Ue (sic) era molto preoccupata che Margaret assumesse “un atteggiamento aggressivo ed ostruzionista che non ci avrebbe portati molto lontano” (4:35). Lawson è qui ammirevolmente esplicito. Ammette, benché non in questi termini, che fu Delors a sollecitare il simpatetico ministro degli esteri affinché insieme al Cancelliere ricattassero il loro primo ministro minacciando entrambi le dimissioni. Lo sguardo di disprezzo che lei rivolge ai due (8:46) è più che eloquente.
La Thatcher è evidentemente orgogliosa di non aver ceduto al loro ricatto, e le versioni di lei, dell’assistente Charles Powell, del suo fedele ministro Nicholas Ridley, e persino di Mitterrand, che la definisce “un freno all’Europa” (6:36; nelle sue intenzioni un insulto), supportano la sua versione. Si noti però che a Madrid non riuscì ad opporsi del tutto allo SME: lo accettò in principio e si rifiutò di fornire una data, ricorrendo alle solite condizioni di Alan Walters. La loro invocazione è esilarante nel godibilissimo scambio nella Camera dei Comuni (9:52). Kinnock, leader dei laburisti, attacca: “Non è evidente, dalla replica appena fornita dal primo ministro, che ella non ha assolutamente alcuna seria intenzione di aderire allo SME finché sopravvive?” “Nooo, per niente — replica la Thatcher, mentre è chiaro a tutti che menta — confermiamo la posizione assunta a Madrid. Non sono stata in grado di aderire allo SME nel mio primo decennio di governo, spero di riuscirci nel secondo.”
Tornando seri, Howe sarà poche settimane dopo degradato da ministro degli esteri a Leader della Camera, posizione al tempo del tutto cerimoniale. Quattro anni dopo il Consiglio di Milano, quattro anni troppo tardi. Il tradimento di Madrid gli costò la carica, ma ne era valsa la pena: accettando in principio la Fase 1 del Piano Delors, Margaret Thatcher era ora invischiata nel processo di costituzione dell’Unione europea.