SpecialiThatcher Sovranista

Thatcher Sovranista/3 – A Roma inizia la resa dei conti: il gioco di sponda per isolare la Signora del No all’Euro

4.1k

Il tradimento dell’establishment diplomatico ed economico britannico è stato il tema principale del precedente episodio, le volontà del primo sostanziate nell’azione del ministro degli esteri Geoffrey Howe, quelle del secondo utilizzate dal Cancelliere Nigel Lawson a supporto della propria infatuazione per la coordinazione monetaria internazionale. Trovandoci a presentare questa serie ad un pubblico italiano, tema supplementare è stato quella commistione di scaltrezza procedurale e frenesia europeista che ha animato la Prima Repubblica negli anni ‘80, rendendola il lieto braccio armato di Francia e Germania nella guerra contro Margaret Thatcher. Di entrambi i temi, vedremo in questo episodio molte altre manifestazioni.

Nigel Lawson non è mai stato europeista. Aveva definito l’Euro in fase di gestazione come “la più grande follia in Europa dai tempi di Monaco”; nel 2016 è stato parte della campagna pro-Brexit, ed ancora oggi, 87enne, è tra i suoi più strenui sostenitori. Come dunque spiegare lo sciagurato tentativo di condurre il Paese nello SME, l’osceno ricatto di Madrid in combutta con Howe e l’apertamente anglofobo Delors, la successiva spregiudicata campagna contro la sua leader e gli uomini a lei fedeli in cui non ebbe remore a coinvolgere il proprio figlio? Il suo arcirivale Alan Walters fornisce una possibile spiegazione (al minuto 9:16)

“Era il migliore dei Cancellieri ed il peggiore dei Cancellieri. Era un uomo intelligente, instancabile, devoto; ma era anche: arrogante, egocentrico, completamente convinto che nessuno fosse più intelligente di lui. Ed invece qualcuno c’era: Margaret Thatcher”.

Se ne deduce che Lawson si fosse a tal punto speso per lo SME, che ammettere di aver avuto torto —e la Thatcher, quindi il suo consulente Walters, ragione— sarebbe stato per lui troppo umiliante.

Ad ogni modo, per quanto dotato potesse credersi, nell’ottobre 1989 la situazione era ormai estremamente imbarazzante per lui. La sua politica monetaria stava fallendo proprio alla maniera prevista da Alan Walters, ora tornato a servire ufficialmente la Thatcher, e la pressione intellettuale dei due era insostenibile. Disposto anche ad abbandonare pur di causarle il massimo danno possibile, tentò un secondo ricatto: rinunciare al suo adorato consulente o accettare le proprie dimissioni (16:47). Con così larga parte dell’establishment politico, mediatico ed economico a supportarlo —lui che era stato un radicale le cui posizioni avevano fino a non molto tempo prima detestato— Margaret Thatcher non poteva correre il rischio di causare le sue dimissioni. Eppure…

“Erano quasi le sette, la stampa avrebbe raggiunto Alan da un momento all’altro. Dovevo essere io ad avvertirlo. Gli telefonai, lui era profondamente sgomento. Non aveva fatto altro che fornire un’eccellente consulenza. Gli dissi ‘No, non te ne vai, Alan. Sei stato assolutamente splendido.’ E lui: ‘ma sono in un’intollerabile posizione. Ho il dovere di andare’. E così decise di andare. Ma io, ero rimasta leale a qualcuno che era stato leale con me. E ancora, non mi sarei lasciata ricattare con tattiche così vergognose.”

La Thatcher aveva dunque perso entrambi gli uomini, benché, nel caso di Alan Walters, solo formalmente: l’economista avrebbe continuato ad assisterla privatamente in quel che restava della sua guerra contro la moneta europea.

Le dimissioni di Lawson fornirono la scusa per la levata di scudi dell’ala europeista. Riunitisi intorno ad un’irrilevante mediocrità che nemmeno nomineremo, i ribelli intendevano contarsi: in circa 80 votarono contro di lei o si astennero. Ma erano destinati a crescere di numero, e fiduciosi che avrebbero infine prevalso. Insieme ai potenti alleati in patria e in Europa, guardarono con soddisfazione i tassi di interesse al 15 per cento – regalo d’addio del Cancelliere – strozzare i settori popolari più devoti alla Thatcher: la piccola impresa, le nuove aziende messe su durante il suo governo, le famiglie di classe operaia che avevano voltato le spalle ai laburisti nel divenire padroni delle proprie case. In un’atmosfera simile, la poll tax non poteva che essere accolta con insofferenza.

Una Margaret Thatcher debolissima fu costretta ad accettare che il nuovo Cancelliere, John Major, ridefinisse le condizioni di Madrid eliminando l’ultimo ostacolo all’adesione allo SME nell’ottobre del 1990, immediatamente prima della conferenza di partito. La speranza era che il gesto, di per sé insufficiente ad appagare gli europeisti, placasse almeno i parlamentari relativamente sani di mente, convinti dalla propaganda d’establishment che lo SME sarebbe stato benefico per il Paese. A Bruxelles, Delors era furioso: non solo il Regno Unito aveva annunciato direttamente ai mercati il tasso di cambio e il margine di oscillazione senza concordarlo con lui ed i “partner” europei, ma la decisione forniva alla sua odiata rivale un esile sentiero verso la sopravvivenza. La donna andava liquidata, e al più presto. Un’occasione si presentò quel mese stesso: una Conferenza Inter-Governativa (CIG) era prevista a Roma per discutere di commercio internazionale, sotto la presidenza di uno dei Paesi più eurofondamentalisti di tutti, la nostra Italia, rappresentata dal sempiterno Giulio Andreotti (presidente del Consiglio) e dal craxiano Gianni De Michelis (ministro degli esteri).

Di Andreotti lei scriverà nella sua autobiografia:

“Sembrava nutrire una particolare avversione ai principi, se non proprio la convinzione che un uomo di principi fosse destinato ad essere uno zimbello. Concepiva la politica come un generale del settecento la guerra: un vasto ed elaborato insieme di grandi manovre, ad opera di eserciti che non si sarebbero mai effettivamente combattuti, ma invece dichiarato vittoria, sconfitta o raggiunto un compromesso, sulla base dei rapporti di forza, di modo da collaborare a quel che premeva loro davvero: la spartizione del bottino. Un talento per il compromesso era forse reso necessario dal sistema politico italiano, ed era senza dubbio di rigore nella Comunità, ma non potevo che avvertire qualcosa di ripugnante in coloro che agivano a quel modo”.

Margaret Thatcher aveva subito l’adesione allo SME senza aver affatto superato la propria fondata ostilità ad esso, né smesso di frequentare Alan Walters (al minuto 11:03 un equivoco dibattito parlamentare su come lei continuasse a frequentarlo quale “amico di famiglia”). La sua opposizione alla moneta unica restava “irremovibile e assoluta” (23:34).

“Una moneta unica europea implicherebbe un’unione economica e monetaria sotto la quale quest’aula cederebbe ogni controllo sulla politica economica e monetaria. È forse sua intenzione presentarsi in quest’aula solo per denudarla dei suoi poteri?”

È in questo clima che stava allestendosi a Roma il palcoscenico per la resa dei conti. Il clan cristiano-democratico continentale, guidato da Andreotti, intendeva tenderle un agguato: il Consiglio avrebbe ignorato il commercio internazionale per soffermarsi invece sull’unione monetaria, con l’obiettivo di introdurre la moneta unica il 1° gennaio 1993. In un’atmosfera tesissima, gli Undici erano determinati ad inserire nel comunicato finale una dichiarazione sull’unione politica che solo la Thatcher si rifiutò di accettare. Seguì la proposta di introdurre la moneta unica il 1° gennaio 1994, altro undici ad uno. La trappola aveva funzionato. In patria la componente europeista avrebbe avuto un pretesto per disseppellire l’ascia di guerra. Una Thatcher furiosa dichiarerà in conferenza stampa:

“Sembra di stare nel mondo dei sogni! Se qualcuno pensa che io possa andare in Parlamento a proporre l’abolizione della sterlina —No! Siamo stati abbastanza chiari che non ci lasceremo imporre una moneta unica!”

John Palmer, dell’anticonservatore Guardian, la descrive in questi termini (24:53):

“Una francamente piuttosto in collera Signora Thatcher ha denunciato l’intera idea [di Unione europea, ndr] e detto che non presiederà alla liquidazione della sterlina, e parlato con un linguaggio molto forte della minaccia alla sovranità nazionale. L’ho interpretata come una dichiarazione politica di guerra all’intero progetto. Il suo ministro degli esteri Douglas Hurd, che sedeva al suo fianco, non mi è parso a suo agio con quel linguaggio”.

La versione originale di quella trasmissione includeva un intervento di De Michelis, intento in collegamento con lo studio londinese a vendere l’Euro ai britannici. Per ragioni di brevità l’ho a suo tempo rimossa, non avrebbe detto alcunché al pubblico inglese. Per noi italiani, è interessante invece rileggere queste sue dichiarazioni a Panorama, del 2013.

“Era metà ottobre. Eravamo alla vigilia delle due conferenze intergovernative tra i capi di Stato e di governo europei per far partire il processo di unificazione monetaria e politica del vecchio continente. L’ostilità della signora era nota. Ricordo che in quell’occasione accompagnai il presidente Cossiga a una colazione di lavoro a Downing Street offerta dalla signora Thatcher. Lei sedeva alla mia destra. Cercai di spiegarle che, pur di avere il Regno Unito tra i soci della nascente costruzione europea, le avremmo fatto concessioni ben più sostanziose di quanto non intendesse Delors. Ricordo anche che ne seguì una discussione piuttosto vivace. Finché fosse rimasta lei primo ministro, ci rispose, la moneta unica non sarebbe mai partita. La signora era irremovibile. Era convinta che le divergenze tra i dodici erano troppo profonde perché il progetto potesse davvero prendere il via. Si sbagliava lei, evidentemente (LOL, ndr). Tanto che, poco dopo il successo di Roma 1 e Roma 2, fu costretta a dimettersi. La sua carriera politica, ora possiamo dirlo, terminò per quell’impuntatura”.

E per completare il quadro dell’euromania collettiva che ha afflitto la classe politica italiana di quegli anni, ecco Repubblica:

“Rifatta con qualche fatica l’unità degli undici contro la signora di ferro, il vertice è filato via liscio come l’olio. E gli italiani già gongolavano sabato notte per il successo ormai chiaro. Il portavoce di Andreotti sprizzava gioia da tutti i pori, nella notte fra sabato e domenica, quando elencava una lunga serie di intese raggiunte con l’eccezione di un solo Paese. E a un giornalista che gli chiedeva, con complice ironia, se nella sua infinita gentilezza a tutti ben nota potesse anche indicare il nome di quel Paese che si opponeva a tutto e a tutti, rispondeva con un sorriso compiaciuto: non lo dico, piuttosto mi mozzerei la lingua.”

Il lunedì successivo, a Bruxelles, un funzionario francese stava presentando un resoconto al proprio personale. Un’anima ingenua gli chiese se il Consiglio non fosse stato un fallimento, data la mancanza di unanimità. Al contrario, replicò lui, era stato un eccezionale successo; aveva ristabilito una condizione di 11 a 1 nella Comunità e destabilizzato la Signora Thatcher in patria. Vedremo nel prossimo episodio quanto costui fosse nel giusto.