“Al Comando Bombardieri abbiamo sempre lavorato partendo dal presupposto che bombardare qualcosa in Germania fosse meglio che non bombardare niente.”
“Tutte le città rimaste in Germania non valgono le ossa di un granatiere britannico.”
(Arthur Harris)
I più avranno riconosciuto nella foto Dresda, l’antica capitale del Regno di Sassonia, distrutta da tre giorni di bombardamenti britannici in cui perse la vita un numero tuttora sconosciuto di tedeschi, ma stimato tra i 30.000 e i 130.000. Artefice Arthur “Bomber” Harris, sostenitore dell’idea che colpire obiettivi civili avrebbe terrorizzato il nemico sino ad indurlo alla resa.
Se è durante l’infanzia a Grantham che la figlia minore dei Roberts, sana famigliola metodista di salumieri di provincia, matura quella commistione di valori che sarà cinquant’anni dopo definita Thatcherismo (libera impresa, nazionalismo, moralità vittoriana), è in quel tempo e a Grantham che la giovane scopre il problema tedesco. Proprio in Grantham ha sede il 5° Gruppo del Comando Bombardieri, è qui che avviene gran parte della pianificazione dei raid sulla Germania, ed è qui che “Bomber” Harris stesso trascorre la parte iniziale della guerra. Ormai divenuta Baronessa Thatcher, Margaret ne è talmente orgogliosa da liquidare qualunque cautela suggerita negli anni ‘90 dal politicamente corretto, e dichiarare esplicitamente nella propria autobiografia “Sono sempre stata dell’idea che Bomber Harris non sia stato onorato a sufficienza”. E continua riportando le parole di un altro controverso germanofobo del suo secolo, Winston Churchill, che degli uomini di Harris aveva scritto “per più di due anni il Comando Bombardieri da solo mosse guerra al cuore della Germania, portando speranza ai popoli dell’Europa occupata, e al nemico un assaggio della poderosa forza che stava montando contro di lui”. Nel ‘92 una statua di Harris fu eretta presso St Clemens Danes, accolta dal disgusto di diverse voci tedesche o germanofile. La Thatcher non solo presenziò all’inaugurazione, ma scelse quel luogo affinché nel 2013 la propria salma fosse lì sollevata dal carro funebre, e caricata sul carro da guerra che la trasporterà presso la Cattedrale anglicana di San Paolo per le esequie.
Nata nell’ottobre del ’25, Margaret è sin da piccina una voracissima lettrice, che finisce col mettere le mani su tutto quel che legge suo padre, adeguato o meno per una bimba della sua età: riviste religiose, ma anche politica internazionale, nonché dettagliati resoconti dell’avanzata del totalitarismo in Germania. Non è neanche tredicenne al momento dell’Anschluss, il primo degli eventi destinati ad impressionarla in maniera indelebile. A scuola alle ragazzine erano state attribuite delle amiche di corrispondenza: a sua sorella Muriel era stata associata Edith, un’austriaca ebrea; dopo l’Anschluss, il padre di lei, un banchiere abbastanza intelligente da annusare la deriva, approfittò dei contatti instaurati dalle giovani per farla espatriare temporaneamente a Grantham.
“Diciassettenne, alta, bella, ben vestita, palesemente di buona famiglia, parlava un buon inglese. Ci disse cosa significasse essere ebrei sotto un regime antisemita. Una cosa mi rimase particolarmente impressa nella mente: gli ebrei, mi disse, erano costretti a spazzare le strade.”
Nel primo giorno del settembre 1939 la Germania invade la Polonia. Domenica 3 settembre scade l’ultimatum britannico, il Regno Unito entra in guerra. L’unica domenica della sua giovinezza in cui Margaret ricordi distintamente di non essere stata a messa: era alla radio, come milioni di connazionali, in disperata attesa di notizie. Nel gennaio del ‘41, sedicenne, mentre con le amiche torna da scuola dotata della propria maschera antigas, qualcuno urla che gli aerei sopra la loro testa sono tedeschi – Grantham è sede di una fabbrica di munizioni e snodo ferroviario. Rapide si pongono al riparo. Nel raid tedesco periranno ventidue suoi concittadini.
Margaret Thatcher non aveva rimosso dalla propria memoria nulla di tutto questo quando, quasi cinquant’anni dopo, iniziò a circolare l’ipotesi che al mostro tedesco della sua adolescenza potesse essere concessa la riunificazione. Benché molti nel continente condividessero le sue paure, pochissimi sembravano disposti a combattere per scongiurarla. Lei, certo, non aveva intenzione di accettare preventivamente la resa. Iniziò a sondare gli alleati sul continente. Ai più saranno noti i dubbi di Andreotti sulla Germania, ma la Thatcher, che pure aveva nutrito qualche speranza sul suo conto dieci anni prima, lo conosceva ormai abbastanza da non riporre in lui alcuna fiducia: era legato a Kohl, cattolico, dal fatto di essere con lui il principale esponente della mafia cristianodemocratica europea (in senso metaforico, è tristemente qui opportuno specificare), ed era talmente privo di carattere che avrebbe capitolato volentieri in cambio di concessioni economiche. Di Mitterrand, invece, nonostante le differenze, aveva sempre avuto una certa stima, corroborata dal suo rinomato ascendente sulle signore. Lui la riceve all’Eliseo nel gennaio del ‘90, per discutere esclusivamente di Germania – conversazione che i due si accordano per mantenere privata, ma che è stata desegretata nel 2010. Il Muro è già crollato, e la DDR è evidentemente prossima al collasso. La Thatcher dichiara di diffidare di Kohl, e di temere per le conseguenze sulla posizione e le riforme di Gorbachev. Mitterrand concorda. L’improvvisa prospettiva di riunificazione aveva scosso i tedeschi, li aveva trasformati nei “cattivi” tedeschi di un tempo. Stavano comportandosi con una certa brutalità, ed era arduo mantenere buone relazioni con loro in quelle condizioni. Né l’Europa né la Germania dell’Est erano pronte per la riunificazione. V’erano state locali dimostrazioni in favore, ma lui sospettava fossero state incoraggiate da agenti della Germania occidentale fornendo cartelli e bandiere, benché non ne fosse certo. Tuttavia, il governo della Germania orientale era prossimo al collasso, e si rischiava che in simili condizioni l’unificazione apparisse come l’unica valida opzione disponibile. Lui comprendeva la logica dell’unificazione, ma raccomandava cautela ed attenzione alle esigenze dell’Unione Sovietica. Eppure, i tedeschi sembravano non volerne sapere: chiunque raccomandasse cautela era visto come nemico della Germania. L’avrebbe messa a parte di un segreto: era stato molto schietto con Kohl e Genscher. Certo che potevano ottenere l’unificazione, portare l’Austria nella Comunità europea, e persino riottenere i territori ceduti dopo la guerra. Potevano anche espandersi più di Hitler. Ma dovevano tenere a mente le conseguenze. Era pronto a scommettere che l’Unione Sovietica avrebbe a quel punto inviato un emissario a Londra e stretto accordi con il Regno Unito; poi a Parigi, e stretto gli stessi accordi con la Francia; ed ecco che sarebbero tornati alle condizioni del 1913. Non intendeva chiedere loro di rinunciare all’unificazione, ma di tenere in conto la reazione dei vicini europei.
Nei fatti, tuttavia, Mitterrand era molto più arrendevole di quanto la sua sfuriata a Kohl lasciasse intendere. Le disse che sarebbe stato stupido dire no all’unificazione, non potevano certo arrestarla dichiarando guerra alla Germania. Concordava però con lei, ed intendeva discutere delle sue proposte – anzi, era l’unica persona con cui potesse davvero discuterne con franchezza. Ma era sinceramente incapace di individuare soluzioni pratiche. Lei dissentiva. Vi erano diversi ostacoli procedurali la cui importanza enfatizzare, se solo tutti fossero stati disposti ad alzare i toni ed agire in maniera coordinata. La politica tedesca era quella di andare avanti spediti finché qualcuno non li avesse fermati, ed al momento li si stava lasciando procedere con troppa libertà. Gli anni ‘90 avrebbero dovuto essere un decennio di speranza, non potevano lasciare che diventassero un decennio di paura. Dovevano insistere affinché i tedeschi rispettassero alla lettera accordi stringenti, e persuadere l’Unione Sovietica a consolidare nella Germania dell’Est le resistenze alla riunificazione.
Il lettore non particolarmente versato nella storia di quegli anni potrà trovare sorprendente una tale disponibilità a cooperare con l‘Unione Sovietica in colei che, proprio per via dei sovietici, è ormai mito con l’appellativo di Iron Lady. Eppure, già nel 1996 George Urban, profugo ungherese e giornalista radiofonico per Radio Free Europe, pubblicò “Diplomazia e disillusione alla corte di Margaret Thatcher”, rivelando come da occasionale collaboratore avesse con rammarico scoperto, dopo un’iniziale infatuazione per la Thatcher, come l’anticomunismo di lei fosse molto diverso dalle proprie utopie globaliste. “La Germania, per lei, è ancora il vero nemico inglese. La Russia, benché anch’essa inaffidabile, è un fattore distante… e di contrappeso. Nel suo subsconscio individuai una nostalgia per le certezze della Seconda Guerra Mondiale, se non della prima”. Ai pettegolezzi delle élites diplomatiche mondiali si è aggiunta una mole di documenti desegretati, che cresce anno dopo anno. “Quel che avevo solo intuito è stato provato dall’apertura di tutti i protocolli”, osservò Kohl nel 2005. “Margaret Thatcher intendeva prevenire la riunificazione tedesca con qualunque mezzo possibile”.
Due mesi prima della caduta del Muro la donna è infatti a Mosca con Gorbachev, e, chiesta particolare segretezza ai presenti, rivela che il suo Paese e l’Europa occidentale non sono interessati all’unificazione della Germania. Sì, i comunicati Nato dichiarano altrimenti, ma Gorbachev può tranquillamente ignorarli. L’Occidente non vuole davvero l’unificazione della Germania. Non desidera neanche la destabilizzazione dell’Europa orientale e la dissoluzione del Patto di Varsavia. E non interferirà nei processi di cambiamento in quei Paesi. La Thatcher va oltre, afferma che questa è la posizione anche dell’amministrazione americana, e che sarebbe stato Bush in persona a pregarla di consegnargli questo messaggio. Impossibile, tuttavia, stabilire se qui non stia distorcendo la posizione americana. Scriverà in seguito:
“Avevo tirato un sospiro di sollievo quando George Bush sconfisse il candidato Democratico alle elezioni presidenziali americane, perché credevo implicasse continuità. Ma con l’insediamento della nuova squadra alla Casa Bianca, mi ritrovai alle prese con un’amministrazione che vedeva nella Germania il proprio principale partner europeo nella leadership, e che incoraggiava l’integrazione europea senza comprenderne del tutto le conseguenze. Sentii di non poter contare come in passato sul supporto americano. […] Per aver pensato e parlato in questa maniera, fui presa in giro come un’irriducibile germanofoba. Si disse di me che fossi una fastidiosa vecchia che era forse servita a qualcosa in passato, ma che era incapace di restare al passo coi tempi. Potevo benissimo vivere con questa caricatura, ne ho sopportate di peggiori; ma non avevo alcun dubbio di essere nel giusto, che l’inatteso prima o poi si sarebbe verificato, e che gli eventi presto o tardi mi avrebbero dato ragione.”
Per quanto spregiudicati gli sforzi di Margaret Thatcher, con il continente succube dell’egemonia tedesca e il mondo dilaniato dagli squilibri globali determinati dal mercantilismo tedesco, è trent’anni dopo evidente quanto ella fosse nel giusto, ma anche come ella abbia fallito.
Un mese dopo la caduta del Muro, al summit europeo di Strasburgo, scaricò la propria tensione contro Kohl. “Nemmeno Margaret Thatcher può frenare i tedeschi dal perseguire il loro destino”, scrive di averle detto lui. “Questo lo credi tu! Questo lo credi tu!”, ribattè lei esasperata. Seguiranno altri insulti. Nel dicembre 1989, dopo aver firmato un testo di formale supporto alla riunificazione, l’inglese commentò amareggiata: “I tedeschi li abbiamo sconfitti due volte. Ora sono tornati.”
Gorbachev baratterà il proprio assenso all’unificazione in cambio di pochi spiccioli usati in parte per pagare debiti contratti verso la Germania stessa, come visto nel precedente episodio, e con notevole irritazione del primo ministro. Gli Stati Uniti, lungi dal seguirla, furono allarmati dal suo avvicinamento all’Unione Sovietica in funzione antitedesca. Iniziarono a temere, non è chiaro quanto fondatamente, che fosse disponibile con essa ad una Entente Cordiale (dal nome dell’accordo stipulato nel 1904 tra Francia e Gran Bretagna per il reciproco riconoscimento delle proprie sfere di influenza coloniale), se non a concedere a Gorbachev financo la demilitarizzazione dell’Europa orientale. Attraverso l’ambiguo Bob Blackwill, le fu comunicato che la sua politica germanofoba stava seriamente danneggiando anche la relazione angloamericana.
Questa atmosfera è complice della frustrazione in cui Margaret Thatcher visse durante l’ultimo anno del proprio governo, i cui travagli abbiamo osservato in passato. Nell’estate del 1990 Nicholas Ridley, ministro dell’industria e del commercio, rilascia un’intervista dai toni vigorosamente antitedeschi a Dominic Lawson, dello Spectator. Dominic è il figlio di Nigel, il Cancelliere artefice di tutte le sue sciagure, che a quel tempo ha già dato le proprie dimissioni, ma che sta ancora manovrando contro di lei dall’esterno; Ridley è uno dei più leali membri del suo governo, e abbiamo notato nel precedente episodio come sarà la slealtà dei suoi ministri a costringerla alle dimissioni… “è una truffa tedesca per conquistare l’Europa”, dichiara Ridley. (2:25 nel video)
“L’idea di dare a costoro la nostra sovranità è per me intollerabile. Non sono contrario per principio a cessioni di sovranità, ma non a costoro. Tanto varrebbe cederla ad Hitler. […] Meglio avere i rifugi antiaerei e la possibilità di difendersi, che lasciarsi sopraffare da Kohl con meccanismi economici. Presto verrà qui ad ordinarci come dobbiamo fare con le banche, e come dobbiamo fare con le tasse. Verrà qui a dare ordini su tutto. […] Mi vede negli anni ‘30 a Jarrow dire ‘ragazzi, lo so che metà di voi siete disoccupati, ma non possiamo parlare di disoccupazione perché quella è competenza di Pohl e della Bundesbank, e dovete parlarne con lui’. Vi sarebbe maggiore disciplina finanziaria in un’economia guidata da Pohl, ma potrebbe anche esservi una sanguinosa rivoluzione. Non si può migliorare il popolo britannico dicendogli ‘questa cosa non la puoi fare perché l’ha detto Herr Pohl’. Risponderebbero ‘al diavolo lei e il suo Herr Pohl’. Essere comandati da un tedesco sarebbe causa di tumulti indicibili, e giustamente, a mio avviso.”
L’opposizione chiede immediatamente che Ridley sia allontanato. Che la Thatcher lo difenda, osservano, è segno che la visione dei due coincide. Dopo giorni di polemiche, è costretta ad accettare le dimissioni del suo ministro. Come se non bastasse, nella stessa settimana una fuga di notizie rende pubblico il resoconto di un seminario sulla Germania di qualche mese prima, partecipi diversi illustri storici, cui il primo ministro ha confidato i propri dubbi. I passi più imbarazzanti:
“Iniziammo discutendo delle caratteristiche tedesche. […] Mancanza di sensibilità verso i sentimenti altrui, una forte inclinazione per l’autocommiserazione; […] aggressività, assertività, prepotenza, egocentrismo […], tendenza ad eccedere nei comportamenti e sopravvalutare le proprie abilità. Un esempio, che aveva influenzato larga parte della storia tedesca, è la convinzione che la vittoria sulla Francia nel 1870 fosse dovuta a profonda superiorità morale e culturale, anziché, com’era nella realtà, ad un modesto vantaggio di tecnologia militare. […]
Sorgeva il dubbio su come una nazione colta e raffinata avesse permesso a se stessa di farsi manipolare sino alla barbarie. Se era accaduto una volta, non sarebbe potuto succedere nuovamente?
L’apprensione non si limitava al periodo nazista, ma riguardava tutta l’era post-Bismarckiana, ed era fonte di notevole sfiducia. Il modo in cui i tedeschi attualmente sgomitavano per imporsi nella Comunità europea suggeriva che molte cose non fossero affatto cambiate. Benché tutti ammirassimo quel che i tedeschi avevano costruito negli ultimi 45 anni, in realtà le loro istituzioni non erano ancora state testate da serie avversità quali un imponente disastro economico. Insomma, nessuno temeva l’attuale élite, ma cosa sarebbe potuto succedere tra quindici o vent’anni? Alcune di quelle infelici caratteristiche del passato sarebbero riemerse? Era già evidente un certo trionfalismo in Germania, da noi poco gradito. Si fece anche riferimento al commento di Gunter Grass: la riunificazione alla fine metterà tutti contro di noi, e sappiamo che succede quando sono tutti contro di noi.
Stranamente, la Comunità europea non fu particolarmente citata. Il comportamento tedesco nella CE, ‘paghiamo quindi si fa come diciamo noi’, era visto da alcuni come precursore del dominio economico sull’Europa occidentale. Vi erano visioni differenti su quanto onesti fossero i tedeschi nel dire di volere un’Europa più integrata parallelamente alla riunificazione. Era solo una tattica per rassicurare gli altri? […] la struttura della CE tendeva a favorire il dominio tedesco, soprattutto sul piano monetario. Contro questo punto, fu osservato che più assertiva fosse divenuta la Germania, più semplice sarebbe stato costruirle alleanze contro su temi specifici nella Comunità”.
Margaret Thatcher sarà spodestata quello stesso autunno. Da semplice parlamentare, avrà modo di continuare la propria crociata sovranista. Lo splendido intervento che ha inizio al minuto 9:40 include poderose dichiarazioni:
“Non c’è niente di particolarmente europeo in una struttura federale. Anzi, è vero il contrario: è lo stato nazionale ad essere europeo.”
“La nostra sovranità non viene da Bruxelles, è nostra di diritto ed ereditaria. Scegliamo noi cosa devolvere alla Comunità, non il contrario.”
Abbandonata la Camera dei Comuni per la molto meno impegnativa Camera dei Lord, la Baronessa Thatcher fa dell’America la propria seconda casa, e vi continua la propria campagna antieuropeista. Al minuto 22:51, in difesa della Nato e contro i progetti per un esercito europeo, che avverte destinato ad essere autonomo dall’America e pertanto ad essa potenzialmente ostile. E aggiunge, quattro anni dopo, al minuto 28:00, che “l’agenda che i federalisti europei hanno programmato non può che essere perseguita se non danneggiando l’interesse americano e compromettendo l’armonia internazionale. (…) Essi intendono creare gli Stati Uniti d’Europa, con governo, moneta ed esercito che sono stati ideati per essere rivali dell’America.”
Mi trovo a concludere questo pezzo poche ore dopo aver letto quello di Robert Zoellick sul Financial Times. Egli fu uno dei funzionari dell’amministrazione Bush più volte criticati dalla Thatcher per la politica estera europeista e germanofila. Scrive oggi che, quasi trent’anni dopo la riunificazione tedesca, “Washington sarebbe folle ad ignorare la crescente deriva ed alienazione tra Usa, Germania e Ue”. Forse, trent’anni fa, avrebbe dovuto prestare ascolto ai consigli provenienti dal Regno Unito, anziché lasciare che il suo capo seguisse istintivamente il richiamo della inquietante tradizione germanofila della dinastia Bush.