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Tria (contro lo choc fiscale) e Di Maio (con le chiusure domenicali): due mosse sbagliate verso lo zero virgola

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Qui ad Atlantico, come si sa, non abbiamo affatto pregiudizi negativi verso il governo. Anzi: ci siamo spesso ritagliati il compito, accanto a quello principale di diffondere idee liberali, di smontare la propaganda di una certa sinistra politica e mediatica, che fino a ieri ha fatto disastri, e oggi pretende di continuare a dare lezioni, in un derby tra i “competenti” (che sarebbero loro) e gli “analfabeti funzionali” (cioè gli elettori). Tutte cose, come sappiamo bene, che
hanno ridotto Pd e soci al lumicino.

Con la stessa franchezza, occorre dire che, nelle ultime 72 ore, dal Governo, in campo economico, sono venuti due segnali preoccupanti.

Il primo è generale e – starei per dire – “ideologico”. Intervenendo a Cernobbio, il ministro Tria si è dichiarato contrario a un provvedimento di choc fiscale, e – mischiando le pere con le mele – ha subito aggiunto che servirebbe a poco cercare miliardi in deficit per poi farseli bruciare dallo spread. La seconda affermazione è addirittura ovvia: ma non si vede cosa c’entri con un intervento di forte taglio fiscale, che il ministro purtroppo esclude, e che sarebbe invece l’unico vero passaporto per la crescita.

Fino allo sfinimento, continueremo a ricordare qui l’esempio di Trump. Il suo megataglio di tasse ha prodotto risultati spettacolari: crescita del secondo trimestre al 4.1 per cento, crescita attesa per fine 2018 sopra il 3 per cento, disoccupazione praticamente annientata (ridotta al 3.9 per cento), salari in crescita e domanda interna schizzata verso l’alto.

Come si fa a non capire che all’Italia serve qualcosa del genere, una “Trumpnomics” adattata al nostro caso? Siamo un Paese che continua a registrare risultati splendidi con l’export (benissimo!), ma, per una crescita vibrante e sostenuta del Pil, il rilancio dei consumi interni è una condizione assolutamente indispensabile. E come la vuoi realizzare, se non concentrando risorse per un forte taglio dell’imposizione fiscale?

Il secondo segnale preoccupante viene da Luigi Di Maio e dalla sua idea della chiusura domenicale del commercio. Non ripeterò qui argomenti liberali classici: il tema della facoltà di apertura e chiusura (contro le imposizioni di stato), il rischio di perdita di posti di lavoro, il rischio di qualche decimale di Pil perso. Ciò che è ancora più preoccupante è la visione del mondo espressa da Di Maio. Ma davvero non capisce che chi ha un posto di lavoro – oggi – deve essere considerato fortunato? E davvero – ancora più surreale – non sa che, con Amazon e con il commercio online, ognuno può continuare ad acquistare come e quando vuole, ogni singolo minuto? Una politica intelligente dovrebbe aiutare il commercio tradizionale (che personalmente amo, per mille motivi anche di storia familiare) a far tesoro delle buone pratiche del commercio online, ad essere più smart e più agile dei grandi centri commerciali, a percorrere tutte le vie che l’ingegno, la libertà, la cura personalizzata di ogni singolo cliente possono suggerire per restare competitivi.

Nel mondo anglosassone si fa esattamente questo. In questi mesi di boom dei consumi negli Usa, cresce ovviamente il monte delle vendite online, ma stanno ottenendo risultati meravigliosi anche i negozi. Solo nel secondo trimestre, negli Usa, sono stati aperti 165mila nuovi negozi, e pure le retribuzioni del lavoratori impiegati nel settore sono schizzate verso l’alto del 4,7 per cento. Non è difficile capire che, tra serrande abbassate e choc fiscali negati, qui rischiamo ancora una volta di rimanere al palo.