Niente da fare, no way, l’America degli intellò, salvo rare eccezioni, è due passi indietro rispetto a quella della gente comune, o meglio di coloro i quali si occupano di tutto meno che di insegnare agli altri come va e come dovrebbe andare il mondo. Una dimostrazione pratica di questa verità incontrovertibile ce l’ha offerta un professore di Scienze informatiche, della Yale University, David Gelernter, con un brillante commento apparso sul Wall Street Journal del 21 ottobre scorso. Il titolo dell’articolo è “La vera ragione per cui odiano Trump”, e il contenuto si dimostra all’altezza del problema evocato, dal momento che l’autore ha quanto meno tentato seriamente di dire qualcosa di sensato e credibile, fuori dagli schemi e dalle semplificazioni che sistematicamente fanno naufragare nella noia e nell’irrilevanza i tentativi analoghi messi in atto dai fini analisti politici di Washington e dintorni.
Gelernter esordisce con una premessa:
“Ogni grande elezione degli Stati Uniti è interessante, ma le prossime midterms sono affascinanti per una ragione che la maggior parte dei commentatori dimentica di menzionare: I democratici non hanno argomenti. L’economia sta esplodendo e la posizione internazionale dell’America è forte. Negli affari esteri, gli Stati Uniti hanno rammentato al momento giusto ciò che Machiavelli consigliava ai principi cinque secoli fa: non cercare di essere amato, cerca piuttosto di essere temuto.”
Il che forse basterebbe da solo a spiegare l’odio dei perdenti, ma in realtà è solo un assaggio delle mazzate che stanno per arrivare a destinazione. Poi un’annotazione en passant di quelle che fanno intravedere un mondo:
“Per le generazioni future, la battaglia di Kavanaugh rappresenterà un indicatore della bancarotta intellettuale del Partito Democratico, la luce rossa lampeggiante sul cruscotto che dice ‘Vuoto’. La sinistra è sconfitta.”
Ebbene, a una sinistra annichilita non resta che un tristissimo “noi odiamo Trump”. Ma a ben vedere, annota Gelernter, ciò che odiano di Trump coincide singolarmente con ciò che odiano dell’America.
“Le persone di sinistra che conosco odiano la volgarità di Mr. Trump, la sua riluttanza ad evitare gli scontri, la sua schiettezza, la sua certezza che l’America è eccezionale, la sua sfiducia nei confronti degli intellettuali, il suo amore per le idee semplici che però funzionano e il suo rifiuto di credere che uomini e donne sono intercambiabili. Peggio ancora, non ha alcuna ideologia se non quella di ottenere il risultato.”
Insomma, odiano in Trump il “tipico americano”, anche se all’ennesima potenza, perché The Donald non riconosce altre limitazioni se non quelle che lui stesso si dà.
Che poi Trump abbia difetti, anche pessimi, persino disgustosi, e che talvolta risulti decisamente unpresidential, è indubbio, ma alla fin fine egli “ci ricorda chi è veramente l’americano medio. Non l’americano medio maschile, o l’americano bianco medio”. Ok, ammette Gelernter, io non lo sceglierei come amico, né lui sceglierebbe me, ma quello che vedo a sinistra è un livore incondizionato, “un odio di cui l’odiatore medesimo—che Dio lo perdoni—è fiero”. Una cosa assolutamente disgustosa. Alla luce di tutto questo è lampante che chi odia Trump in realtà odia l’americano medio, maschio o femmina, bianco o nero. E talvolta odia l’America tout court.
Il professore completa il ragionamento osservando che a Trump sta toccando in sorte ciò che è capitato a Ronald Reagan. Un attore cinematografico alla Casa Bianca? Tanti si vergognavano, ricorda, e invece The Gipper si è rivelato un grande presidente. Evidentemente, “questo paese deve essere gestito da dilettanti, dopotutto, da semplici cittadini, non solo da avvocati e burocrati”. Il presidente, conclude Gelernter, merita il nostro rispetto perché gli americani se lo meritano—non gli intellettuali spocchiosi e i professoroni o i commentatori televisivi, ma la gente comune, gli americani che hanno fatto grande l’America e che continuano a renderla tale in barba agli intellettuali con la puzza sotto il naso.
Davvero non male il quadretto di questo professore di Computer science. Non per niente, oltre a essere ospitato dal WSJ, anche New York Post, Los Angeles Times, The Weekly Standard e Frankfurter Allgemeine Zeitung se lo contendono. Nessuna meraviglia che dalla sua penna sia uscita un’analisi tanto impietosa quanto preziosa dell’influenza devastante esercitata sulla società americana dalla liberal academia. Un libro che tutti i conservatori dovrebbero aggiungere alla propria biblioteca: “America-Lite. How Imperial Academia Dismantled Our Culture (and Ushered in the Obamacrats)”.