- Uno spaccato sulla reale natura della macchina anti-disinformazione che i Paesi occidentali stanno costruendo ovunque e dei suoi “fact checkers”
Quando Elon Musk ha preso in mano Twitter, ribattezzandolo X, e varato il nuovo corso pro-libera espressione, era prevedibile che ci sarebbe stata una reazione da parte di quanti ai quali il vecchio Twitter censorio stava benissimo.
Musk ha sempre affermato che sotto la sua guida X sarebbe stata una piattaforma “per tutti”, e che “tutti sarebbero stati un po’ scontenti”, il che presuppone un compromesso di qualche tipo.
C’è ora da chiedersi se Musk non stia seguendo il percorso di tanti moderati che non si erano veramente resi conto di quanto intransigenti, e potenti, siano le forze con le quali ha a che fare e, nello specifico, quanto senza compromessi sia la loro visione di un’informazione strettamente controllata.
Come osserva su Townhall l’ex-Dipartimento di Stato Mike Benz, Musk sembra ancora reagire con stupore ogni volta che il Big Tech dà un nuovo giro di vite alla libertà di espressione.
La censura sistemica su Twitter
E questo lo sta adesso portando in rotta di collisione con l’Anti Defamation League (ADL), la potente organizzazione watchdog contro l’antisemitismo.
Sappiamo, da ripetuti rilasci di Twitter Files, che la censura della piattaforma social media non era occasionale e casuale, ma diretta e organizzata. Da un network che includeva non solo il gigante di Silicon Valley, ma agenzie di sicurezza, governo, e organizzazioni non-governative.
Un Complesso Industriale della Censura privo di qualunque imparzialità, il cui scopo non era come dichiarato di combattere la disinformazione, le “fake news”, ma di dirigere la narrazione. E la narrazione il più delle volte veniva diretta dove preferito da una particolare parte politica, come nel caso emblematico della storia del laptop di Hunter Biden.
Né si tratta di un caso limitato a Twitter. Sempre Mike Benz:
Dal 2006 al 2016 la censura era un’azione. Nei cinque anni seguenti la censura è diventata un’industria. I suoi potenti portatori di interessi sono sparsi in ogni conglomerato mediatico importante, ogni sistema di pagamenti online di rilievo, ogni principale istituto universitario degli Usa e del Regno Unito, centinaia di think tanks, organizzazioni non governative e gruppi di pressione, commissioni internazionali di regolamentazione e sorveglianza, ed è ora fermamente intrecciata con le politiche e le operazioni del Dipartimento di Stato Usa, il Pentagono, e le agenzie di Intelligence.
La rappresaglia: pressioni sugli sponsor
Piuttosto improbabile che un tale apparato di potere potesse accettare di perdere il controllo di una piattaforma come Twitter. Avendo Elon Musk dissolto la precedente struttura di censura interna di X, la rappresaglia è arrivata da una direzione in realtà prevedibile: le pressioni sugli sponsor pubblicitari.
“Twitter sta avendo un massiccio calo di profitti a causa di gruppi di attivisti che fanno pressione sugli inserzionisti, malgrado niente sia cambiato nella moderazione dei contenuti e abbiamo fatto di tutto per accontentare gli attivisti. Estremamente incasinato! Stanno cercando di distruggere la libertà di parola in America”, dichiarò Musk il 4 novembre del 2022, solo pochi giorni dopo aver acquisito Twitter.
A supporto della tesi per cui dietro il boicottaggio degli sponsor ci sarebbero gruppi di pressione, Musk fa notare che sul mercato asiatico, dove le ong occidentali non hanno potere, il reddito pubblicitario di X resta invariato.
Si tratta di una pratica ben rodata, che la sinistra politica usa da anni negli Stati Uniti, dove esistono organizzazioni di attivisti dedicate come Media Matters che monitorano i media conservatori alla ricerca di qualunque frase fuori posto. Per poi contattare gli sponsor del caso pretendendo il ritiro del contratto pubblicitario. “Non vorrete certo essere associati con dei bigotti”. Nella nostra società in cui la morale pubblica è interamente basata sulla political correctness, è una tattica che funziona puntualmente.
Fatevi un giro su qualunque organizzazione mediatica conservatrice americana, anche quelle maggiori con milioni di followers, e scoprirete molto rapidamente che i suoi sponsor sono piccole imprese. Nessuna Nike, Ford, o Nvidia. Non è un caso che tutti i media conservatori siano passati ad un più difficilmente boicottabile sistema di sottoscrizioni.
Il ramoscello d’ulivo
Cosa che ha fatto anche Elon Musk su Twitter, ma per un colosso come X non poteva certo bastare. Di fronte alla perdita di incassi pubblicitari, stimata intorno al 50-60 per cento, Musk ha cercato di porgere un ramoscello d’ulivo facendosi succedere dalla nuova ceo di X Linda Yaccarino, l’ex coordinatrice delle partnership con sponsor pubblicitari (titolo oscuro, come spesso lo sono) del World Economic Forum.
La nomina di Yaccarino ha però causato accorate grida di allarme tra quanti vogliono che X rimanga la piattaforma della libera espressione. “Dall’arrivo di Linda – dice Jake Denton della Heritage Foundation – sembra che stia tornando a poco a poco il vecchio regime di censura”.
Yaccarino, utilizzando la familiare terminologia postmodernista sugli “spazi sicuri” e la “lotta alla disinformazione” che ormai sostiene la censura in tutto il mondo occidentale, ha reintrodotto lo shadowbanning giustificandolo con ambigui slogan quali “freedom of speech, not reach” (libertà di parola, non di diffusione), e “lawful, but awful” (legale, ma brutto), e quindi da censurare.
Inutile dire che questi sono eufemismi utilizzati da sempre per dare un volto umano alla censura. Citando George Orwell: “Se la libertà significa qualcosa, significa libertà di dire alla gente ciò che non vuole sentirsi dire”.
Il nuovo team “anti-disinformazione” di X, voluto da Yaccarino, sta inoltre creando una infrastruttura controllata da Intelligenza Artificiale per vagliare i post “disinformativi” in vista delle elezioni del 2024. Dato che l’ultima volta che Twitter ha fatto qualcosa del genere abbiamo avuto la soppressione degli Hunter Files, è lecito allarmarsi. Tanto più che molti dei reclutati dal team sembrano essere gli stessi nomi del 2020.
Lo scontro con l’ADL
Ma se Yaccarino aveva il compito di riappacificare Musk e gli sponsor pubblicitari, qualcosa deve essere andato storto, perché il 5 settembre Musk ha minacciato in un post su X di querelare l’Anti Defamation League (ADL) per motivi strettamente correlati alla perdita di inserzioni pubblicitarie. A detta di Musk l’ADL starebbe intimidendo gli sponsor: “Da quel che sento dagli inserzionisti, l’ADL sembra responsabile della maggior parte delle nostre perdite di fatturato”.
Musk non spiega in che maniera esattamente proprio l’ADL stia facendo perdere profitti a X, ma è plausibile che essa stia usando le stesse tattiche già descritte parlando di Media Matters. Con la differenza che il potere della ADL è enormemente superiore, e che non deve nemmeno fare lo sforzo di chiamare gli inserzionisti uno ad uno, ma solo distribuire liste nere attraverso grandi agenzie di PR.
L’ADL sostiene che da quando Musk ha rilevato Twitter i contenuti antisemiti siano aumentati sulla piattaforma, e chiede che venga fatto di più per contenerli. Tuttavia l’interesse dell’ADL per X sembra andare oltre l’antisemitismo.
I casi Chaya e Rufo
“L’ADL ha spinto forte perché chiudessimo account come quello di Chaya, anche se non ha niente a che vedere con l’antisemitismo, che è il loro atto costitutivo”, ha rivelato Musk su X. “Chaya” è Chaya Raichik, proprietaria del popolarissimo account X “Libs of Tik Tok”, la cui attività principale è trovare video online di attivisti di sinistra che svelano i loro sogni e progetti politici, e postarli senza alcun commento.
L’account è diventato una vera e propria spina nel fianco dell’ideologia woke, aprendo gli occhi a molti su tattiche e reali intenzioni nascoste dietro altisonanti appelli alla giustizia sociale.
“Libs of Tik Tok” ha una lunga storia di molestie da parte di attivisti contro la “disinformazione”, compreso un episodio di doxing al quale contribuì nientepopodimeno che il Washington Post. Il regime pre-Musk di Twitter si rifiutò di rimuovere i tweet di doxing.
In un articolo apparso su Human Events, Raichik racconta come l’ADL l’abbia inserita nel suo “Glossario dell’Estremismo”, in pratica una lista nera, per aver postato sul suo account un video promozionale della “prima clinica gender pediatrica” degli Stati Uniti, che offre transizioni di sesso a minori.
Un caso simile è quello di Chris Rufo, un attivista che guida con ottimi risultati una campagna su scala nazionale in favore di buoni scolastici che diano la possibilità ai genitori di scegliere con più facilità se mandare i propri figli a scuola pubblica o privata.
A detta di Rufo, l’ADL l’ha bollato come “estremista” per aver contestato la diffusione nelle scuole dell’ideologia gender.
Come Obama trasformò l’ADL
Ma perché l’ADL ha così tanto interesse per un account che non ha niente a che vedere con l’antisemitismo, tanto più gestito da una ebrea ortodossa? E per un fautore della scelta scolastica?
Perché la realtà è che, come già successo a molte altre ong, col tempo l’ADL si è trasformata da un’associazione non partisan dedita alla difesa di diritti umani e civili, ad un’altra delle tante associazioni di sinistra dedite alla “giustizia sociale”.
Il cambiamento radicale nelle politiche dell’ADL è avvenuto nel 2014 quando al suo presidente Abe Foxman successe Jonathan Greenblatt. Una nomina fortemente voluta dall’allora presidente Barack Obama, del cui staff Greenblatt faceva parte.
Greenblatt iniziò subito a spostare la precedentemente non partigiana ADL politicamente a sinistra, soprattutto in supporto alla politica mediorientale del presidente, all’epoca in conflitto col governo Netanyahu sul JCPOA, l’accordo sul nucleare iraniano. Avvicinò inoltre l’ADL a organizzazioni come Black Lives Matter e J-Street, un’organizzazione ebraica di estrema sinistra fortemente filo-palestinese.
Questo rese Greenblatt immediatamente una figura molto controversa. Secondo Isi Leibler, un prominente membro della comunità ebraica australiana, l’ADL ha “perso la via”, soprattutto riguardo a Israele, con Greenblatt che “si comporta come se fosse ancora un impiegato dell’amministrazione Obama“.
Nel corso degli anni successivi, l’ADL a guida Greenblatt normalizzò le relazioni con ogni gruppo notoriamente anti-israeliano della sinistra americana, così come pure con ong di attivisti anti-Israele come la Ford Foundation, sdoganando le loro posizioni su BDS, insediamenti ebraici, soluzione a due stati, che precedentemente classificava come borderline, se non del tutto antisemite. Sempre minimizzando gli episodi di antisemitismo provenienti da sinistra, inclusi quelli violenti.
In quegli anni il Partito Democratico iniziava la politicamente rischiosa manovra di distanziarsi dal supporto incondizionato per Israele che aveva fino a quel momento tenuto almeno ufficialmente. E in ciascuna circostanza lo fece con la copertura della ADL di Greenblatt.
Nello stesso periodo l’ADL guidò la campagna per etichettare Donald Trump e la sua amministrazione come antisemiti. Nel 2018 produsse un gonfiatissimo rapporto in cui si asseriva che gli attacchi antisemiti fossero in drammatico aumento negli Stati Uniti, che andava a rafforzare la retorica del Partito Democratico su Trump alfiere del “suprematismo bianco”.
L’intersezionalità
Contemporaneamente l’ADL iniziò ad incorporare nella sua piattaforma la cosiddetta “intersezionalità”. Una filosofia tipica della sinistra postmoderna, sviluppata dalla teorica della Teoria Critica della Razza (Critical Race Theory – CRT) Kimberlé Crenshaw, che sostiene che ogni forma di discriminazione sia collegata, equivalente, e riconducibile ad un sistema di oppressione delle minoranze strutturato all’interno di tutta la società occidentale.
La CRT, secondo l’ADL, “ci aiuta a capire come e perché l’ingiustizia razziale continua a persistere negli Stati Uniti”. L’ADL ci tiene tanto alla Teoria Critica della Razza, che nel 2021 ha pubblicato un rapporto che taccia i genitori che si oppongono al suo insegnamento nelle scuole di “estremismo” e “suprematismo bianco”.
Nel 2020 l’ADL aggiornò la sua definizione di razzismo da: “La credenza che una particolare razza sia superiore o inferiore ad un’altra, e che i tratti sociali e morali di una persona siano predeterminati da caratteristiche biologiche innate”. A: “La marginalizzazione e oppressione della gente di colore basata su una gerarchia razziale costruita per privilegiare la gente bianca”.
Nel 2022, in seguito alle polemiche che ne derivarono, la definizione è stata nuovamente cambiata in: “Individui o istituzioni che mostrano un più favorevole trattamento verso un gruppo o individuo basandosi su razza o etnia”. Un richiamo al cosiddetto “razzismo sistemico“, altra colonna portante dell’ideologia woke.
Ecco così spiegato perché ora l’ADL collega in maniera così disinvolta antisemitismo e omofobia, e razzismo, e misoginia. Nell’ideologia woke ognuno di questi, veri o presunti, peccati di bigottismo, sono intersezionabilmente collegati. Non esiste l’uno senza l’altro. Se sei omofobo, sei anche misogino, razzista, e antisemita. L’unico modo per non essere nessuna di queste cose, è abbracciare l’ideologia woke in toto, e senza distinzioni o discussioni.
È in questa maniera che neri che votano conservatore vengono definiti “suprematisti bianchi”, medici che respingono l’idea che non esista un sesso biologico sono misogini, lesbiche che non vogliono avere rapporti sessuali con donne trans, ovverosia uomini vestiti da donna, imbottiti di ormoni, e dotati di pene, sono TERF (Trans Esclusionary Radical Feminist).
Ormai l’ADL non è altro che un’ennesima organizzazione che ha abbracciato, in tutto e per tutto, i precetti filosofici, o pseudo-teologici, woke. Nel mondo dell’ADL, “estremismo”, una delle parole usate più volentieri dall’organizzazione, è ora intersezionale. Si tratta di un’organizzazione ideologica.
ADL schierata a sinistra
E politica. Messa da parte ogni pretesa di neutralità, l’ADL è ora un’organizzazione apertamente schierata politicamente a sinistra, e collabora alacremente con qualunque campagna politica del Partito Democratico americano.
In occasione delle elezioni del 2020 Greenblatt si unì a una campagna per spingere Facebook a cancellare gli annunci elettorali di Donald Trump. La campagna era guidata da non meno che Al Sharpton, predicatore nero vicino da sempre al Partito Democratico, che ha il discutibile privilegio di essere, in occasione delle rivolte di Crown Heights del 1991, l’unico americano vivente ad aver guidato un pogrom, e fino ad allora considerato dalla comunità ebraica uno dei più grandi antisemiti in America.
In quanto organizzazione ideologica e politica, l’ADL si è pertanto allineata al nuovo corso della sinistra americana e internazionale per cui ogni opposizione politica che non si adegui docilmente alle proprie posizioni è illegittima e pericolosa per la democrazia, così ben esplicitato nel Red Speech di Joe Biden del 2022.
Questo stato di cose ha portato molti nella comunità ebraica, inclusa la prestigiosa rivista Tablet, a disconoscere l’ADL completamente:
Ecco perché non avere una ADL del tutto sarebbe molto meglio che avere quella corrente. A causa dei suoi massicci conflitti di interesse, l’ADL di Greenblatt potrebbe star contribuendo, inavvertitamente o no, alla crescita dell’antisemitismo, non al suo calo.
Ma il suo passato di rispettabile organizzazione consente all’attuale ADL di continuare a proclamarsi a caccia di antisemitismo, spingere verso la normalizzazione le sue equivalenze intersezionali, e di appiccicare la nomea di antisemita a chiunque decida di attaccare per qualunque motivo. È sfruttando questo prestigio che l’ADL può intimidire gli inserzionisti pubblicitari, e sabotare X.
Col suo impegno all’interno del Complesso Industriale della Censura, l’Anti Defamation League vuole fermare la disinformazione. Ma la sua concezione di disinformazione è ideologica intersezionale. E ha dimostrato più volte di applicare anche la stessa definizione di antisemitismo in maniera non imparziale.
Il problema con il controllo dell’informazione è sempre lo stesso: Quis custodiet ipsos custodes?
Le chance di Musk
Elon Musk ha intimato che potrebbe decidere di rilasciare informazioni sulle pressioni ricevute da X da parte dell’ADL in stile Twitter Files, il che sarebbe assolutamente interessante, ma quali sono le possibilità che Musk vinca una causa per diffamazione contro l’ADL? Poche, molto poche. Nel sistema legale americano la diffamazione di personaggi pubblici è notoriamente difficile da provare.
Ancora più importante, quante sono le possibilità che la campagna anti-ADL di X possa smascherarla e gettare un’ombra sulla reale natura della macchina anti-disinformazione che i Paesi occidentali stanno costruendo ovunque e dei suoi “fact checkers”? Ancora meno.
Perché diciamolo, quanti avranno la pazienza di andare a scavare, come ho fatto io, nella storia recente dell’ADL per vedere cosa c’è dietro la facile retorica dei diritti umani, o anche solo leggersi articoli come questo? La maggior parte della gente sentirà dire in televisione che Elon Musk è antisemita, lo dice l’ADL, e pace così. Tanto più che, chi ha il coraggio di dubitare e rischiare di essere bollato come antisemita egli stesso?