Ci siamo occupati domenica del primo episodio dei Twitter Files, i documenti interni divulgati da Elon Musk per far comprendere al pubblico come il social abbia interferito nelle elezioni presidenziali del 2020, accettando di operare come proxy per la censura su segnalazione diretta del Team Biden e del Comitato Nazionale Democratico, e in particolare come sia stata presa la decisione di sopprimere la storia – vera – del laptop di Hunter Biden, uno scoop del New York Post a pochi giorni dal voto.
Ma c’è un altro aspetto di questa vicenda che rischia di restare in secondo piano e che deve ancora essere raccontato in tutta la sua portata – e forse lo faranno i successivi lotti dei Twitter Files.
La collusione
La soppressione della storia del laptop, infatti, fu anche una operazione di intelligence. No, non nel senso che si trattò di “disinformazione russa” come si disse all’epoca. Fu una operazione dell’FBI e di ex funzionari dell’Intelligence Community farla passare per “disinformazione russa” e seppellirla, per non farla arrivare al grande pubblico a pochi giorni dalle elezioni (anzi, mentre milioni di elettori stavano già votando).
Proprio come nel 2016, con l’inganno del Russiagate contro Trump, anche durante la campagna presidenziale del 2020 il Partito Democratico ha collaborato con la leadership dell’FBI, con attuali ed ex funzionari della sicurezza nazionale e con i media amici, con l’obiettivo di far tagliare il traguardo per primo ad un candidato alla Casa Bianca debole e compromesso.
Anziché i media tradizionali, nel 2020 gli strumenti di questa collusione sono state le compagnie di Big Tech e in particolare i social media, Twitter e Facebook.
Lo scandalo Biden
Il risultato più clamoroso è stato la sistematica soppressione dello scandalo di corruzione della famiglia Biden. In cui Joe Biden è “coinvolto fino al collo”, anche se si è sempre parlato della storia del laptop di suo figlio Hunter.
Come ricorda l’ex procuratore Andrew McCarthy su National Review – da notare che né lui né la testata sono accusabili di essere trumpiani, sono semmai conservatori anti-Trump – parliamo di milioni di dollari che – ora si sa – sono stati versati nelle casse della famiglia Biden da agenti di regimi autoritari e antiamericani come Cina e Russia, e corrotti come l’Ucraina.
Non cercare smoking gun
Quello che sappiamo oggi è che la censura di questo scandalo fu il risultato non solo delle pressioni del Team Biden e della faziosità politica ai vertici delle piattaforme, ma anche dell’azione diretta dell’FBI.
Come ha riportato nel suo thread Matt Taibbi, almeno nel primo lotto di Twitter Files non ci sono prove di uno specifico avvertimento alle piattaforme social di una “disinformazione russa” o di un hackeraggio con riguardo alla storia del laptop di Hunter Biden. Ma come ha osservato la giornalista del Post Miranda Devine, ci sono prove significative della collusione dell’FBI nello schema.
Siccome nel primo lotto non c’è una smoking gun, qualcuno sostiene che Twitter non censurò la storia del laptop a causa dell’interferenza dell’FBI.
Ma McCarthy suggerisce di non cercare la “pistola fumante“. Non troveremo un documento dell’FBI in cui si dice: “Diciamo a Twitter che le prove su Biden sono disinformazione russa”. “Non è questo il modo in cui il gioco funziona”.
McCarthy spiega che “non è necessario che i funzionari dell’FBI emettano avvertimenti specifici per trasmettere il messaggio che una storia dovrebbe essere soppressa”.
Come funziona il gioco
Ecco lo schema: attori “raffinati” in ogni campo, ex funzionari governativi nei media tradizionali e nei social media. I 51 ex funzionari dell’intelligence che affermano, senza alcuna prova concreta, che il laptop di Hunter Biden “porta i segni” della disinformazione russa, pur senza affermarlo esplicitamente, o la presenza di James Baker, ex consigliere generale dell’FBI, tra i legali ai vertici di Twitter.
Da una parte, funzionari governativi con la loro routine di allusioni e ammiccamenti, dall’altra dirigenti pronti a coglierli al volo. I vertici di Twitter e Facebook comprendevano bene che l’FBI non teneva certo senza motivo “incontri settimanali” con loro prima del voto, ma anche che in questi incontri, con privati, non poteva accusare alcuno di una specifica condotta criminale, come lo spionaggio o l’hackeraggio.
Le sarebbe bastato mantenere il discorso sul generale, ma questo, insieme alla sua “autorità percepita”, le avrebbe consentito di far arrivare il messaggio – e, in seguito, di negare di averlo fatto.
La prima interferenza dell’FBI
Ora sappiamo cosa accadde, anche se ovviamente i media mainstream non ne parlano. Tutto è iniziato mesi prima che il New York Post riportasse la storia del laptop il 14 ottobre 2020.
Già a luglio 2020, ricostruisce McCarthy, i Democratici al Congresso erano profondamente preoccupati che il loro candidato sarebbe stato devastato dalle prove raccolte dai senatori Repubblicani Chuck Grassley e Ron Johnson, che chiarivano il modo in cui la famiglia Biden aveva sfruttato l’influenza politica di Joe, quando era vicepresidente di Obama.
E come ha raccontato il senatore Grassley, i Dem hanno chiamato i loro amici dell’FBI. Tra questi Timothy Thibault, il capo dell’ufficio di Washington, e l’analista Brian Auten, sebbene sotto indagine interna sul suo ruolo nelle ingannevoli richieste di mandato FISA nel 2016-17, quelle in cui il Bureau ha indotto un tribunale federale segreto a credere che Trump fosse colluso con la Russia.
I Democratici convinsero l’FBI a fornire un briefing ai senatori sulle prove raccolte da Grassley e Johnson. La valutazione di intelligence di Auten teorizzava che le prove su Biden fossero “disinformazione“, anche se gran parte di esse si basava su report di attività sospette presentati da istituzioni finanziarie, trasferimenti di denaro da fonti straniere ai Biden, facilmente verificabili.
La sponda dei media
Ovviamente, non mancò la pronta sponda dei media amici. Ad agosto, l’Associated Press riportava che le agenzie di intelligence Usa avevano bollato come “disinformazione russa” le prove raccolte dai Repubblicani. Nel frattempo, Thibault si muoveva all’interno dell’agenzia per far chiudere l’indagine su Hunter Biden.
Gli avvertimenti ai social
Ma già allora, come poi sarebbe emerso, l’FBI stava conducendo incontri regolari, settimanali, con i dirigenti di Facebook e Twitter, nei quali ovviamente veniva dipinto lo stesso quadro presentato ai senatori.
Dunque, l’FBI ha davvero detto ai social media che le prove su Biden erano “disinformazione russa”? Beh, conclude McCarthy, “di certo ci è andata dannatamente vicina“.
Sicuramente con Facebook, come ha raccontato lo stesso Mark Zuckerberg al podcast di Joe Rogan. La decisione di censurare la storia del laptop fu presa proprio a causa dell’avvertimento dell’FBI ricevuto in quei giorni:
Dovreste stare in allerta… Pensavamo che ci fosse molta propaganda russa nelle elezioni del 2016, abbiamo notato che fondamentalmente sta per esserci una specie di schifezza simile a quella, quindi siate vigili.
E “se l’FBI viene da noi e ci dice che dobbiamo stare in guardia su qualcosa, la prendiamo sul serio”, ha chiosato Zuckerberg. Nessuna pistola fumante: avvertimento generico, più “autorità percepita”, e il gioco è fatto.
Lo stesso è accaduto con Twitter, i cui legali stavano ricevendo lo stesso messaggio dall’FBI: “Censuratela”. I documenti interni divulgati da Musk mostrano il ruolo di Baker, l’ex consigliere generale dell’FBI, nel convincere i suoi colleghi a mantenere la decisione della censura.
Ma già lo scorso anno, Yoel Roth, allora capo della Commissione Trust&Safety di Twitter, dichiarò sotto giuramento alla FEC (Federal Election Commission) di essere stato avvertito dall’FBI dell’arrivo di una storia su Hunter Biden risultato di un hackeraggio:
Durante questi incontri settimanali, l’FBI comunicò che si aspettavano operazione “hack and leak” da attori statali poco prima dell’elezione presidenziale del 2020, probabilmente in ottobre. (…) Ho anche appreso in questi incontri che c’erano voci che un’operazione “hack and leak” avrebbe coinvolto Hunter Biden.
A confermare questi incontri settimanali e l’avvertimento ai social di una operazione “hack and leak” poco prima del voto, la testimonianza di un agente della Task Force sull’interferenza straniera dell’FBI, Elvis Chan, nella causa intentata contro il governo federale dagli Attorney General di Missouri e Louisiana.
Quando, il 14 ottobre, il New York Post ha pubblicato la storia del laptop, i social hanno fatto due più due.
I giocatori
La campagna elettorale del Bureau per conto di Biden fu così palese che quando chiamato in causa, la sua smentita fu blanda: sì, abbiamo fornito “indicatori di messaggi stranieri”, ma ovviamente non possiamo essere responsabili di come le società di social media scelgono di agire riguardo ad essi.
“Ecco come il gioco funziona, basta cercare una smoking gun“, conclude McCarthy. “I giocatori sanno esattamente cosa stanno facendo. Dicono abbastanza per sostenere la menzogna, ma si lasciano margine per negare di averlo fatto. Pensano che siamo degli idioti”.