Non solo la lettera di Zuckerberg: ormai smascherata la macchina della censura

Covid e molto altro… L’ammissione non arriva per caso o improvviso pentimento, ma per effetto dei Twitter Files e di una indagine del Congresso. Tutto quello che c’è da sapere nel nostro canale

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La notizia c’è, anche se avrete faticato a trovarla ieri sui giornali e nelle rassegne stampa ufficiali. Ma non avrà sorpreso più di tanto i lettori più fedeli di Atlantico Quotidiano. Non è la prima volta infatti che il fondatore di Facebook e Meta Mark Zuckerberg ammette che i suoi social si sono prestati a censurare utenti e contenuti su indicazione di agenzie governative Usa. E Atlantico è stato uno dei pochi a riportarlo puntualmente. Di più, da ormai quasi quattro anni abbiamo dedicato al tema della censura social un intero canale.

Provate a immaginare le reazioni se a esercitare queste pressioni fosse stato un governo di destra, o se le pressioni fossero arrivate a direttori di media tradizionali. Siccome questa vera e propria macchina della censura è stata messa in piedi e guidata da un’amministrazione di sinistra e da agenzie federali ed ex funzionari allo scopo di danneggiare il terribile Donald Trump, allora parlarne è ancora oggi tabù – nonostante oramai sia tutto in atti ufficiali di commissioni parlamentari.

La lettera di Zuckerberg

Ma partiamo dunque dall’ultimo atto, la lettera ufficiale al presidente della Commissione Giustizia della Camera dei rappresentanti, Jim Jordan, in cui Zuckerberg (1) ammette che l’amministrazione Biden ha ripetutamente sollecitato Meta a rimuovere i contenuti relativi alla pandemia da Covid, compresi quelli umoristici e satirici, (2) riconosce che fu un errore censurare la storia del laptop di Hunter Biden, e (3) esprime profondo rammarico per la decisione di conformarsi alle pressioni governative, promettendo di respingere tentativi simili in futuro.

Nel 2021, alti funzionari dell’amministrazione Biden, Casa Bianca inclusa, hanno ripetutamente fatto pressione sui nostri team per mesi affinché censurassero determinati contenuti sul Covid-19, anche umoristici e satirici, esprimendo molta frustrazione con i nostri team quando non eravamo d’accordo. Alla fine, è stata una nostra decisione se rimuovere o meno i contenuti e riconosciamo le nostre decisioni, comprese le modifiche relative al Covid-19 che abbiamo apportato alla nostra applicazione delle regole sulla scia di questa pressione. Credo che le pressioni del governo fossero sbagliate e mi dispiace che non siamo stati più espliciti al riguardo. Penso anche che abbiamo fatto alcune scelte che, con il senno di poi e con nuove informazioni, non faremmo oggi. Come ho detto ai nostri team all’epoca, sono fermamente convinto che non dovremmo compromettere i nostri standard sui contenuti a causa delle pressioni di qualsiasi amministrazione in entrambe le direzioni e siamo pronti a respingerle se qualcosa del genere dovesse accadere di nuovo.

Non solo Covid: il laptop di Hunter

Ma le ammissioni nella lettera non sono limitate al tema Covid. Zuckerberg parla infatti anche della decisione di censurare la storia del laptop di Hunter Biden, uno scoop del New York Post pubblicato a pochi giorni dal voto per le presidenziali del 2020. Ne abbiamo parlato in molti articoli, su Atlantico Quotidiano, a proposito dei Twitter Files e della macchina della censura social.

L’articolo del Post sul portatile abbandonato da Hunter presso un negozio di riparazioni rivelava l’esistenza di decine di migliaia di e-mail tra il figlio del presidente e i suoi soci in affari, che dimostravano come Hunter sfruttasse il nome del padre, allora vicepresidente, nei suoi affari all’estero. Etichettata come disinformazione russa, quando in realtà il laptop era già in possesso dell’FBI, alla storia fu impedito di circolare sia su Facebook che su Twitter, il che ha probabilmente avuto un peso sull’esito delle elezioni.

Anche in questo caso, il ceo di Meta, ammette di aver agito su indicazione di autorità governative, confermando quanto aveva già avuto modo di dire personalmente un paio di anni fa, come vedremo tra poco.

In una situazione separata, l’FBI ci ha messo in guardia su una potenziale operazione di disinformazione russa sulla famiglia Biden e Burisma in vista delle elezioni del 2020. Quell’autunno, quando abbiamo visto un articolo del New York Post che riportava accuse di corruzione che coinvolgevano la famiglia dell’allora candidato democratico alla presidenza Joe Biden, abbiamo inviato quell’articolo ai fact-checker per la revisione e l’abbiamo temporaneamente declassato in attesa di una risposta. Da allora è stato chiarito che il reportage non era disinformazione russa e, a posteriori, non avremmo dovuto declassare l’articolo. Abbiamo modificato le nostre politiche e procedure per assicurarci che ciò non accada di nuovo.

Infine, nella lettera si parla della Chan Zuckerberg Initiative delle presidenziali del 2020, ribattezzata non a caso “Zuckerbucks” Initiative, che consisteva in “contributi” alle giurisdizioni elettorali locali in tutto il Paese (oltre 400 milioni di dollari) per “aiutare le persone a votare in sicurezza durante una pandemia globale”. Sebbene Zuckerberg contesti che si trattasse di una iniziativa di parte, siccome molti credono che abbia avvantaggiato un partito, e il suo obiettivo è essere e apparire neutrale, fa sapere di non avere intenzione di dare un “contributo” simile in queste elezioni.

Due anni fa la prima ammissione

Ma come dicevamo, la prima ammissione di Zuckerberg risale a circa due anni fa. Lo raccontò a Joe Rogan durante la puntata del 25 agosto 2022 del suo podcast:

L’FBI fondamentalmente è venuta da noi, alcune persone della nostra squadra, [dicendo]: “Ehi, solo perché lo sappiate, dovreste stare in allerta… Pensavamo che ci fosse molta propaganda russa nelle elezioni del 2016, abbiamo notato che fondamentalmente sta per esserci una specie di schifezza simile a quella, quindi siate vigili”. E guarda, se l’FBI – che considero ancora un’istituzione legittima in questo Paese, forze dell’ordine molto professionali – viene da noi e ci dice che dobbiamo stare in guardia su qualcosa, voglio prenderla sul serio.

Quindi, quando il New York Post ha pubblicato la storia, il 14 ottobre 2020, Facebook l’ha trattata come “potenzialmente disinformazione, disinformazione importante”, per cinque o sette giorni. E durante quel periodo ne ha ridotto la circolazione. “Potevi ancora condividerla, potevi ancora consumarla”, ha spiegato Zuckerberg, ma “meno persone l’hanno vista di quante l’avrebbero fatto altrimenti”. E anche se non ha quantificato l’impatto, ha affermato che la riduzione della circolazione fu “significativa”.

Ancora più estrema fu la censura di Twitter, che arrivò a bannare il profilo del New York Post e quello della Campagna Trump per impedirgli di parlarne e censurò totalmente l’articolo, impedendo che fosse rilanciato, presumibilmente avendo ricevuto lo stesso warning dall’FBI. Sarebbe interessante sapere quali altri media, nuovi o tradizionali, abbiano ricevuto tale avviso.

Rogan chiese se l’FBI avesse espressamente avvertito di “stare in guardia su quella storia”. Dopo aver inizialmente risposto “no”, Zuckerberg si è corretto dicendo: “Non ricordo se fosse specificamente quello, ma sostanzialmente si adattava allo schema“. Che l’FBI si riferisse o meno alla storia del laptop di Hunter Biden è a questo punto irrilevante perché l’avvertimento arrivato a Facebook (ma probabilmente ad altri social e media tradizionali) fu abbastanza specifico da indurre le piattaforme a censurare lo scoop del Post.

Il problema è che in tutta questa vicenda la disinformazione – e l’ingerenza nelle elezioni – non è stata quella russa, ma quella dell’FBI. Contrariamente al falso allarme lanciato al team di Facebook (e presumibilmente agli altri media), infatti, la storia del laptop non era disinformazione russa, ma una storia vera e devastante per Joe Biden, perché mostrava come avesse mentito al pubblico americano quando nel settembre del 2019 e poi nei dibattiti tv affermò di non aver mai discusso degli affari di suo figlio all’estero.

La macchina della censura

Ma questa lettera non è venuta fuori per caso, così, per improvviso pentimento di Zuckerberg. Chi come noi di Atlantico Quotidiano segue da ormai quattro anni queste vicende, sa che si arriva alle ammissioni del ceo di Meta dopo i Twitter Files e grazie all’indagine della Commissione Giustizia della Camera Usa sulla “weaponization” del governo federale, sull’uso politico delle agenzie federali, dall’FBI all’HHS, e sui loro attacchi alle libertà civili degli americani, primo fra tutti il free speech.

In pratica, una Commissione d’inchiesta Covid al cubo (che qui da noi ancora non è partita), dato che l’oggetto dell’indagine non è limitato ad un solo tema, ma si estende a tutti gli ambiti in cui il governo sia intervenuto impropriamente, anche avvalendosi di compagnie private come proxy, per limitare o minacciare le libertà dei cittadini.

Dall’indagine è emersa la collusione tra Big Tech e agenzie federali, FBI su tutte, per bannare dai social contenuti e utenti “scomodi” per le politiche governative. Una vera e propria operazione di sorveglianza di massa e controllo dell’informazione, con la scusa della lotta alle fake news.

Un coordinamento, fatto di contatti e incontri regolari, tra governo federale, esperti di disinformazione o presunti tali nelle università e vertici di Big Tech, creato per controllare e censurare il dibattito politico sui social. Centinaia di documenti non pubblici, ottenuti dalla Commissione, mostrano come l’Agenzia per la cybersecurity (CISA) del Dipartimento per la Sicurezza interna, il Global Engagement Center (GEC) del Dipartimento di Stato, l’Università di Stanford, Atlantic Council e altre istituzioni hanno collaborato ad un progetto volto a monitorare ed esercitare pressioni sui social media per convincerli a censurare gli americani prima e dopo le elezioni presidenziali del 2020.

Le richieste di censura hanno riguardato un’ampia sfera di temi, non solo il Covid o il laptop di Hunter Biden, ma in generale qualsiasi politica o narrazione governativa che venisse sfidata sui social. Come nel caso del dibattito sul Covid, venivano censurati con l’etichetta “fuorviante” anche dati accurati e informazioni vere, ma scomodi per le politiche governative, screditando medici e altri esperti semplicemente perché non allineati al CDC Usa.

È solo questione di tempo perché venga fuori che la censura ha riguardato anche il dibattito sul cambiamento climatico e le politiche green, secondo le stesse logiche: tutelare la narrazione ufficiale etichettando come “fuorvianti” anche contenuti accurati e utenti autorevoli.

D’altra parte, è proprio questo che ha teorizzato la direttrice dell’Agenzia per la cybersecurity e la sicurezza delle infrastrutture, Jen Easterly, secondo la quale il suo mandato includerebbe anche il controllo della “nostra infrastruttura cognitiva”, quindi la lotta alla “mala-informazione” o all’informazione “basata sui fatti, ma utilizzata fuori contesto per fuorviare, danneggiare o manipolare”. In pratica, sono censurabili anche affermazioni e fatti veri se il governo li considera “fuorvianti” rispetto alla sua narrazione.

Il silenzio di Zuckerberg

Per anni il fondatore di Facebook ha occultato il coordinamento con le agenzie governative e quando Elon Musk è stato attaccato per aver pubblicato i Twitter Files e smantellato l’apparato di censura all’interno dell’ex Twitter, Zuckerberg si è opposto alle richieste di pubblicare i suoi stessi file e le prove delle pressioni del governo per censurare gli utenti.

È stato un partner attivo e disponibile alle richieste di censura e ha nascosto queste informazioni per anni, vedendosi costretto a capitolare solo oggi, dopo che la Commissione Giustizia gli ha ordinato di fornire i “Facebook Files”.

Ora le prove del coordinamento tra le agenzie governative e i vertici delle piattaforme social per censurare contenuti e utenti sono evidenti, pubbliche, ufficiali, ed espongono le bugie dell’amministrazione Biden e dei leader Democratici che hanno ostinatamente negato per anni.

Chi vuole approfondire ulteriormente, troverà tutto nel nostro canale.

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