Se nemmeno la Corte Suprema riesce a difendere il free speech

Social media forti con gli utenti e deboli con i governi. Sentenza pilatesca nella causa Murthy v. Missouri sulla censura durante pandemia e presidenziali 2020

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La sentenza pronunciata il 26 giugno scorso dalla Corte Suprema degli Stati Uniti nella causa Murthy v. Missouri è, a parere di chi scrive, un sintomo preoccupante della incapacità attuale dei sistemi giuridici di tutelare in maniera compiuta uno dei diritti fondamentali riconosciuti (sia pure con diverse sfumature e gradazioni) in tutti i Paesi occidentali, quello alla libertà di esprimere liberamente il proprio pensiero. Dico ciò con riferimento all’uso dei social networks, che ormai interessa la maggioranza della popolazione, dai capi di stato, ai leaders politici, economici e religiosi, alle persone “comuni”.

Il problema è tanto più grave in quanto esso è presente addirittura negli Stati Uniti, il Paese nel quale da un lato la tutela dei diritti individuali (tra cui ovviamente spicca quello alla libertà di parola, garantito del I Emendamento alla Costituzione) è massima, e dall’altro l’applicazione delle norme giuridiche è guidata da un forte senso empirico, teso a trovare sempre le soluzioni (criticabili o meno) dei problemi concreti, e si basa quasi sempre su una esemplare chiarezza nell’emanare le decisioni (condivisibili o meno) destinate a regolare le dispute che coinvolgono le parti in causa.

Proprio tenendo conto di questa chiarezza, che è tipica delle sentenze americane anche quando i giudici, come ha fatto la Corte in questo caso in sostanza decidono di non decidere, credo sia utile proporre al lettore alcune riflessioni che spero potranno contribuire a meglio comprendere un argomento molto complesso che riguarda tutti i Paesi occidentali.

La causa Murthy v. Missouri

La causa in esame riuniva in sé più giudizi di carattere civile promossi a vario titolo da una serie di soggetti pubblici, gli stati della Louisiana e del Missouri (che figura tra le parti che danno il nome alla stessa), e di soggetti privati (alcuni medici specialisti, il gestore di un sito di informazione e un’attivista dei diritti civili) che affermavano di essere stati in vario modo censurati riguardo alle loro idee espresse sui social networks, quali Facebook (ora Meta), Twitter (ora X) e YouTube.

Le presunte censure andavano dalla semplice apposizione di indicatori di giudizio negativo (flagging) sui loro interventi (post), al declassamento (demotion) degli stessi in ordine alla loro visibilità per gli utenti, alla restrizione del numero dei loro futuri accessi (restriction), per arrivare in alcuni casi alla eliminazione (removal, delection) del contenuto postato o addirittura alla esclusione dalla possibilità di utilizzare in futuro il social network interessato (deplatform).

Tutte queste limitazioni erano riferite essenzialmente a due temi caldi, il primo di rilievo mondiale, relativo alle ipotesi sulle origini della epidemia causata dal Covid-19 e alle critiche sulla gestione della stessa (tema sul quale il nostro Paese vanta dei primati non invidiabili, anche in tema di violazione della libertà di espressione del pensiero: si pensi alle ipotesi di sanzioni penali richieste in alcuni casi verso i critici delle decisioni governative), il secondo tipicamente americano relativo alle presunte irregolarità avvenute nelle elezioni presidenziali del 2020.

La causa però non era stata promossa nei confronti dei gestori dei social networks, che in quanto privati (in base ad una legge federale del 1966) hanno la facoltà, così come i giornali e le reti tv, di decidere se dare spazio o meno ad un determinato intervento sulle loro “piattaforme”, ma era stata proposta nei confronti di alcune della autorità pubbliche più importanti negli Usa: il presidente Joe Biden; alcuni alti funzionari della Casa Bianca; le principali agenzie e strutture dell’amministrazione sanitaria, tra cui il Corpo degli Ufficiali del Servizio di sanità pubblica (Public Health Service Commissioned Corps, o PHSCC), diretto dal chirurgo generale (Surgeon General) vice ammiraglio V. Murthy (che figura tra le parti che hanno dato il nome alla causa), nonché nei confronti della stessa polizia investigativa federale (il famoso FBI).

Tutte le autorità pubbliche, tenute ovviamente dal canto loro al rispetto della libertà di parola dei cittadini, erano state citate in giudizio poiché, tramite una serie di più o meno velate pressioni avrebbero indotto i gestori dei social networks, che in tal modo avrebbero agito in sostanza come meri strumenti del potere pubblico, a porre in essere i comportamenti più o meno lesivi dei diritti dei soggetti danneggiati che si sono descritti poco sopra.

Sia nel giudizio di primo grado che in appello davanti ai giudici federali, i ricorrenti avevano vinto le rispettive cause e le diverse autorità pubbliche erano state condannate, tramite una serie di provvedimenti che noi chiamiamo “inibitori”, ad astenersi in futuro da interventi analoghi diretti a costringere (coercing) o anche solo ad incoraggiare (encouraging) i gestori dei social networks ad operare delle censure sui post non graditi ai vertici del potere esecutivo o alle strutture dipendenti dallo stesso riguardo agli argomenti in esame.

La decisione della Corte

La Corte Suprema ha però ribaltato il giudizio con una decisione presa con una maggioranza di 6 contro 3, una decisione che, smentendo le spesso grossolane affermazioni sulla “cieca” dipendenza politica delle Corti negli Usa, ha visto alleati giudici di orientamento sia conservatore che progressista.

Come si ricava dalla opinione di maggioranza, redatta dalla giudice Amy Coney Barrett, la Corte non ha contestato il fatto che i ricorrenti avessero subito le restrizioni che si sono descritte in precedenza, ma ha affermato che le prese di posizione e gli inviti da parte delle autorità pubbliche erano molto generici e che non si poteva decidere con certezza se le stesse nei casi specifici avessero avuto un ruolo decisivo al fine di spingere i gestori dei social networks a censurare i post dei ricorrenti.

Inoltre, secondo la maggioranza della Corte, un provvedimento “inibitorio” rivolto ad impedire in futuro alle amministrazioni pubbliche citate in giudizio di interferire sulle decisioni dei gestori dei social networks riguardo alle materie in esame non avrebbe avuto alcuna utilità concreta per i ricorrenti, in quanto le pressioni dei poteri pubblici sul mondo dell’informazione erano ormai terminate da tempo sia relativamente alle critiche sulla gestione della pandemia che riguardo a quelle sullo svolgimento delle elezioni presidenziali.

Tenendo conto di ciò, chi scrive non si sente di dare torto alla Corte. Per quanto riguarda la responsabilità delle censure, è difficile stabilire con certezza se nei casi specifici proposti in giudizio dai ricorrenti le stesse furono il frutto delle pressioni pubbliche oppure delle decisioni dei gestori dei social networks, anche se ad esempio alcune affermazioni del presidente di Facebook Mark Zuckerberg, critiche verso le pressioni governative, contenute negli atti della causa e riportate nell’opinione dissenziente del giudice Samuel Alito in rappresentanza della minoranza, rendono chiaro il fatto che tali pressioni hanno comunque avuto un ruolo nelle scelte dei gestori delle piattaforme social, anche se è difficile stabilire se tale ruolo fu decisivo o no nei casi oggetto del giudizio.

Inoltre, come giustamente afferma la maggioranza, oggi, nel 2024, sarebbe del tutto inutile un provvedimento giudiziario che vietasse al presidente Biden, o alle Agenzie sanitarie o ad altre strutture come l’FBI di esercitare pressioni su temi che ormai non fanno più parte del dibatto politico e sociale e stanno entrando nell’ambito della riflessione storica, che peraltro in molti casi, ad esempio per quanto riguarda la pandemia sta dando ragione (si pensi alla critica alle chiusure generalizzate o ai vaccini imposti “a tappeto”) a chi allora venne censurato sui social networks.

Media tradizionali e social media

Rimane in ogni caso il forte dubbio che, a livello di comportamenti generali, come messo in chiara evidenza nella citata opinione dissenziente, le pressioni delle autorità pubbliche abbiano contribuito a far sì che i gestori dei social networks intervenissero sulla libertà dei loro utenti di postare opinioni sgradite al potere federale, e permane la possibilità che le stesse cose (quale che sia il colore dell’amministrazione al potere) possano ripetersi in futuro.

Tutto questo però a parere di chi scrive, rappresenta un problema non solo giuridico, ma anche e soprattutto politico, dato che esso riguarda la generalità delle regole che disciplinano il rapporto tra i social networks, i loro utenti e le autorità pubbliche. A mettere meglio in luce questo fatto ci può servire la stessa opinione dissenziente che giustamente opera un confronto tra la posizione dei media tradizionali (ad esempio i giornali) e i social networks.

A questo scopo, il giudice Alito sottolinea la diversa posizione dei primi e dei secondi nei confronti del potere pubblico: mentre i mass media tradizionali (uso parole mie per esprimere i suoi concetti) sono responsabili del contenuto pubblicato, ma sono tutelati in maniera assoluta dalle ingerenze (almeno da quelle formali) del potere pubblico, dato che nessuna autorità pubblica, nemmeno il presidente si potrebbe permettere di fare pressioni analoghe a quelle descritte sui gestori degli stessi (ad esempio sul direttore di un quotidiano), i social networks se da un lato non sono responsabili del contenuto postato, dall’altro sono soggetti a molti tipi di pressione da parte dei poteri pubblici, proprio a motivo della loro posizione privilegiata (che comprende anche la situazione di oligopolio di cui essi godono), cosa che li rende forti verso gli utenti ma deboli verso le autorità, proprio il contrario di quello che dovrebbero essere i mezzi di comunicazione un tempo definiti i “cani da guardia” della correttezza dell’uso del potere.

Possibili soluzioni

Il problema è complesso, ma le soluzioni per tutelare meglio la libertà dei singoli di postare il proprio pensiero sui social networks (a meno che ovviamente, diversamente dal quanto pensa chi scrive, non si consideri soddisfacente la situazione attuale) potrebbero essere a mio avviso essenzialmente due, ferma restando in ogni caso la libertà di accettare o no da parte dei gestori dei social networks i post di chiunque: o equipararli, sia pure con regole diverse, ai giornali, il che renderebbe responsabili i loro gestori del contenuto postato ma li libererebbe da possibili pressioni da parte del potere pubblico, oppure disciplinare per legge i casi in cui il potere pubblico possa legalmente imporre la censura (nelle varie forme descritte più sopra) ai contenuti postati.

Chi scrive, tenendo conto che ormai i social networks sono diventati in sostanza dei grandi giornali nei quali chiunque può esprimere le proprie idee (il che ha i suoi lati positivi ma anche quelli negativi) preferirebbe la prima soluzione, magari unita a un maggiore pluralismo negli stessi social riguardo ai criteri dagli stessi usati per accettare o no gli interventi degli utenti, un maggiore pluralismo che si potrebbe ovviamente ottenere o con uno “spezzettamento” dei grandi operatori oligopolisti o con un maggiore coinvolgimento degli utenti nelle loro scelte.

Al di là delle opinioni personali, rimane comunque il fatto che il problema della libertà di “postare” il proprio pensiero sui social networks ha assunto un’importanza via via più elevata e che il rischio di ledere la libertà di espressione dei cittadini impedendo o limitando l’accesso ai social è oggi molto forte, non solo negli Stati Uniti (che ci sono serviti come termine di paragone), ma anche, e forse in misura maggiore in quei Paesi, tra i quali rientra anche il nostro, nei quali (e la pandemia ce ne ha fornito purtroppo un chiaro esempio) la tutela della libertà di manifestazione del pensiero, prevista in Italia dall’art. 21 della Costituzione, è molto più debole, per ragioni storiche e culturali, di quella americana.

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