A quanto pare la sinistra italiana non è l’unica a ricorrere all’accusa di fascismo nei confronti degli avversari politici in campagna elettorale. La stessa accusa è risuonata nei giorni scorsi negli Stati Uniti, dove è in corso la campagna per le elezioni di midterm.
Fascisti e metodi fascisti
A pronunciarla è stato addirittura il presidente Joe Biden, che all’incirca una settimana fa ha definito non solo Trump, ma “l’intera filosofia alla base” del trumpismo, la filosofia “MAGA” (dallo slogan trumpiano Make America Great Again), “semi-fascist”, dando così dei fascisti ad oltre 70 milioni di americani che nel 2020 hanno votato per Donald Trump.
Una evidente escalation verbale: se nel 2008 Barack Obama definì “bigots” gli americani che non lo avevano sostenuto, nel 2016 Hillary Clinton usò l’espressione “basket of deplorables”, fino ad arrivare al “semi-fascist” odierno di Joe Biden.
A rincarare la dose la responsabile dell’ufficio stampa della Casa Bianca. Nel goffo tentativo di spiegare e supportare le parole del presidente, Karine Jean-Pierre è andata persino oltre, definendo i “MAGA Republicans”, i repubblicani che hanno votato Trump, “una minaccia estrema alla nostra democrazia, alla nostra libertà, ai nostri diritti”.
Concetti che ieri sera a Philadelphia il presidente Biden ha ribadito in un comizio ultra-divisivo e lacerante. Praticamente, ha dichiarato i MAGA Republicans nemici dello Stato.
Ma nelle scorse ore Jean-Pierre è riuscita a fare di peggio, con una uscita che non sappiamo dire se più ridicola o più inquietante: “When you are not with what majority of Americans are, then you know, that is extreme. That is an extreme way of thinking”.
Un fenomeno che qui in Italia conosciamo bene ma che credevamo fosse confinato alla nostra sinistra: se non la pensi come me, sei un pericoloso estremista, un fascista. Come ha osservato Ben Shapiro, questa è esattamente la piega attuale del discorso politico negli Usa: “Tutti quelli che non mi piacciono sono Hitler!”
Ma tra le sparate retoriche e i titoli spettacolari, non ci accorgiamo della “graduale deriva verso la tirannia”.
Curioso infatti che sia proprio chi accusa gli avversari di fascismo ad avvalersi di metodi fascisti nella gestione del potere e nella repressione del dissenso. Questo sta accadendo in America, per quanto incredibile possa apparire, e non bisogna essere timidi nel riconoscerlo o moderati nel contrastarlo.
Lo stesso Shapiro riporta nel suo articolo alcuni esempi concreti di usurpazione dei poteri del Congresso da parte del presidente Biden, ma nelle ultime ore due notizie enormi stanno faticando a farsi largo.
Censura social ampia e coordinata
Il governo federale Usa ha collaborato attivamente con Big Tech nell’ultimo anno per censurare le informazioni ritenute false o imprecise sul Covid e bloccare gli utenti che le diffondevano.
Funzionari dell’amministrazione Biden si coordinavano regolarmente con i team dei principali social media, tra cui Facebook e Twitter, tramite email, call e incontri periodici, al fine di censurare la presunta “disinformazione” relativa al Covid e ai vaccini sulle loro piattaforme.
I funzionari governativi davano istruzioni su come segnalare casi di presunta disinformazione e come contrastare le presunte false narrazioni, mentre i team dei social rendevano conto della loro opera di censura.
È quanto emerso dalle email che gli stessi dipendenti dei social e funzionari si scambiavano e che gli Attorney General del Missouri, Eric Schmitt, e della Louisiana, Jeff Landry, hanno legalmente ottenuto chiedendo alla Corte distrettuale della Louisiana di obbligare il Dipartimento di Giustizia a fornirli.
Lo scorso maggio, spiega Schmitt, Missouri e Louisiana hanno intentato una causa per cercare di dimostrare la presunta collusione tra alti funzionari dell’amministrazione Biden e le società di social media al fine di censurare la libertà di parola su una serie di argomenti, incluso il Covid-19.
Già a luglio scorso la Corte aveva chiesto all’amministrazione Biden di consegnare le comunicazioni e i due AG sono entrati in possesso di una serie di documenti che dimostrano chiaramente come il governo federale intrattenesse una relazione incestuosa con le società di social media e si coordinasse con esse per censurare la libertà di parola.
Tuttavia, il Dipartimento di Giustizia si rifiutava di fornire le comunicazioni tra i funzionari di più alto rango e i social media, opponendo il privilegio esecutivo. Quindi mercoledì scorso i due AG hanno chiesto alla Corte di obbligare il Dipartimento di Giustizia a fornire le comunicazioni anche tra i funzionari di alto rango – della Casa Bianca, del Dipartimento di Stato, dell’FBI e di altri uffici – e i principali social media.
Dagli scambi di email già forniti è emersa “una vasta impresa di censura attraverso una moltitudine di agenzie federali”. Sono stati identificati 45 funzionari federali impegnati a comunicare con i social media riguardo “disinformazione” e censura.
“Meta, ad esempio – si legge nel comunicato dei due AG – ha rivelato che almeno 32 funzionari federali, inclusi alti funzionari della FDA, della Commissione di assistenza elettorale e della Casa Bianca, hanno comunicato con Meta sulla moderazione dei contenuti sulle sue piattaforme, molti dei quali non sono stati divulgati. YouTube ha rivelato 11 funzionari federali coinvolti in tali comunicazioni, inclusi funzionari del Census Bureau e della Casa Bianca, molti dei quali non sono stati divulgati”.
I documenti ottenuti finora “dimostrano che questa impresa di censura è estremamente ampia” e include funzionari della Casa Bianca, del Dipartimento della salute (HHS), del Dipartimento degli interni (DHS), dell’Agenzia per la Cybersicurezza (CISA), dei Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC), dell’Istituto nazionale malattie infettive (NIAID) e dell’Ufficio del Surgeon General; ed evidentemente anche altre agenzie, come il Census Bureau, l’Agenzia dei farmaci (FDA), l’FBI, il Dipartimento di Stato, il Dipartimento del Tesoro e la Commissione di assistenza elettorale. E sale ai livelli più alti del governo degli Stati Uniti, inclusi numerosi funzionari della Casa Bianca.
Un dipendente senior di Facebook in una email inviata al Surgeon General afferma: “So che i nostri team si sono incontrati oggi per comprendere meglio la portata di ciò che la Casa Bianca si aspetta da noi sulla disinformazione in futuro”.
Lo stesso, in una successiva email, ringrazia un funzionario dell’HHS “per aver dedicato del tempo ad incontrarci oggi” e spiega come Facebook stia adottando ancora più misure per censurare la libertà di parola.
Ci sono diversi casi in cui Facebook non avrebbe proceduto a censurare fino a quando non avesse ricevuto un input o un “debunking” dal CDC. Twitter ha seguito la stessa procedura secondo almeno una email.
Il CDC ha anche proposto incontri mensili di pre-debunking con Facebook per aiutarli a censurare, così come regolari chiamate “stai in guardia” con i principali social media. Un funzionario della Casa Bianca si è persino preoccupato di far chiudere gli account parodia di Anthony Fauci coordinandosi con Facebook per farli eliminare.
Ciò che emerge da questi scambi di email, che secondo i querelanti, gli AG di Missouri e Lousiana, sono solo la punta dell’iceberg, e nemmeno ai piani più alti dell’amministrazione Biden, è un intenso sforzo, un enorme apparato di monitoraggio e censura all’interno del governo federale per istruire i social media su chi bannare e cosa cancellare dalle piattaforme.
A conferma del fatto che l’amministrazione che accusa gli oppositori di fascismo è la stessa che ha usato e probabilmente sta ancora usando metodi fascisti per limitare la libertà di parola; e che i social media si sono prestati e probabilmente ancora si prestano. E questo avviene nel nostro Occidente.
Ricorderete commentatori ed esperti che ci spiegavano, e ci spiegano tuttora, come le piattaforme social abbiano tutto il diritto di bannare e censurare secondo le loro policy, essendo compagnie private separate dai governi. Ebbene, quanto emerge da queste email dimostra che al contrario sono colluse con i governi al fine di controllare e censurare il discorso pubblico.
La rivelazione di Zuckerberg
Ma un’altra notizia clamorosa nei giorni scorsi è passata praticamente sotto silenzio.
Ricorderete, a pochi giorni dalle elezioni presidenziali del 2020, lo scoop del New York Post sul laptop di Hunter Biden, il figlio del presidente e dell’allora candidato alla Casa Bianca Joe Biden.
I media liberal oscurarono la notizia, bollandola come disinformazione russa – accusa che oggi sappiamo essere falsa – ma anche i social media la oscurarono e addirittura Twitter arrivò a bannare il profilo del New York Post, uno dei maggiori quotidiani del Paese, impedendo totalmente la condivisione dell’articolo.
Ebbene, durante la puntata del 25 agosto del podcast di Joe Rogan, il fondatore e ceo di Facebook, Mark Zuckerberg, ha rivelato che fu l’FBI a spingere i social a censurare la storia del laptop di Hunter Biden.
Quando gli è stato chiesto da Rogan come Facebook gestisce le notizie controverse, come appunto la storia del laptop a pochi giorni dal voto, Zuckerberg ha interrotto il suo host per fornire un retroscena della decisione del social di limitare la circolazione della storia.
“L’FBI fondamentalmente è venuta da noi, alcune persone della nostra squadra, [dicendo]: ‘Ehi, solo perché lo sappiate, dovreste stare in allerta… Pensavamo che ci fosse molta propaganda russa nelle elezioni del 2016, abbiamo notato che fondamentalmente sta per esserci una specie di schifezza simile a quella, quindi siate vigili'”.
E Zuckerberg ha aggunto: “Ehi, guarda, se l’FBI – che considero ancora un’istituzione legittima in questo Paese, forze dell’ordine molto professionali – viene da noi e ci dice che dobbiamo stare in guardia su qualcosa, voglio prenderla sul serio”.
Quindi, quando il New York Post ha pubblicato la storia del laptop di Hunter Biden, il 14 ottobre 2020, Facebook ha trattato la storia come “potenzialmente disinformazione, disinformazione importante” per cinque o sette giorni. E durante quel periodo ha ridotto la circolazione della storia.
“Potevi ancora condividerla, potevi ancora consumarla”, ha spiegato Zuckerberg, ma “meno persone l’hanno vista di quante l’avrebbero fatto altrimenti”. E anche se non ha quantificato l’impatto, ha affermato che la riduzione della circolazione fu “significativa”.
Addirittura, come abbiamo ricordato, Twitter bannò il profilo del New York Post, bloccò quello della Campagna Trump per impedirgli di parlarne e censurò totalmente l’articolo, impedendo che fosse rilanciato, presumibilmente avendo ricevuto lo stesso warning dall’FBI. Sarebbe interessante sapere quali altri media, nuovi o tradizionali, abbiano ricevuto tale avviso.
Rogan gli ha quindi chiesto se l’FBI avesse espressamente avvertito “di stare in guardia su quella storia”. Dopo aver inizialmente risposto “no”, Zuckerberg si è corretto dicendo: “Non ricordo se fosse specificamente quello, ma sostanzialmente si adattava allo schema“.
Che l’FBI si riferisse o meno alla storia del laptop di Hunter Biden è a questo punto irrilevante perché l’avvertimento arrivato a Facebook (ma probabilmente ad altri social e media tradizionali) fu abbastanza specifico da indurre la piattaforma a censurare lo scoop del New York Post.
La disinformazione dell’FBI
Il problema è che in tutta questa vicenda la disinformazione – e l’ingerenza nelle elezioni – non è stata quella russa, ma quella dell’FBI.
Contrariamente al falso allarme lanciato al team di Facebook (e presumibilmente agli altri media), infatti, la storia del laptop non era disinformazione russa, ma una storia vera e devastante per Joe Biden, perché mostrava come avesse mentito al pubblico americano quando nel settembre del 2019 affermò di non aver mai discusso degli affari di suo figlio all’estero.
Al di là di foto e video che mostrano il figlio del presidente assumere droghe e in compagnia di prostitute, le informazioni contenute nel laptop coinvolgevano l’allora candidato Dem in uno scandalo pay-to-play con Russia, Ucraina e Cina.
L’FBI ha quindi potenzialmente interferito con le elezioni presidenziali del 2020 disseminando false informazioni ai media.