Twitter Files 6, la sussidiaria dell’FBI: come opera il cartello della censura

L’FBI segnalava, Twitter bannava. Primo Emendamento aggirato dal Deep State delegando manipolazione e censura a compagnie private e ong

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Il sesto lotto dei Twitter Files rilasciato a cura di Matt Taibbi questo Venerdì, offre una decisiva conferma a quanto rivelato negli scorsi mesi da The Intercept basandosi su altri documenti ufficiali del governo federale Usa.

Un cartello della censura

Negli Stati Uniti è oggi all’opera un vero e proprio cartello della censura, di cui fanno parte il governo, le società del Big Tech, e organizzazioni formalmente private, in realtà così vicine al governo da essere in pratica parastatali, dedito a controllare il flusso delle informazioni in internet. Che “raccoglie, analizza, e segnala i tuoi contenuti sui social media“, per dirla con Taibbi.

La confidenzialità con l’FBI

Sempre secondo Taibbi: “I contatti con l’FBI di Twitter erano costanti e pervasivi, come se si trattasse di una società sussidiaria“.

Tra il 2020 e il 2022 oltre 150 email vennero scambiate tra Yoel Roth, il capo della oramai famigerata commissione Trust&Safety di Twitter, ora disciolta da Elon Musk, e agenzie di intelligence e sicurezza federali.

Ciò si va ad aggiungere alle riunioni personali tra Twitter e agenti governativi già ammesse da Roth in precedenti Twitter Files, e riportati da The Intercept.

Un messaggio del 2022 proveniente dall’ufficio legale di Twitter conferma che le riunioni con FBI, DOJ, e DHS sono “settimanali”. E che addirittura “non ci sono impedimenti” da parte dell’FBI nel condividere con Twitter informazioni classificate come confidenziali.

Come fatto notare da un anonimo agente dell’FBI citato da Taibbi, questo livello di confidenzialità non è usuale: “Molte compagnie con le quali abbiamo a che fare ci sono ostili. Come T-Mobile, che è totalmente ostile. Ci provano gusto a far trapelare ciò che abbiamo detto quando facciamo degli errori di procedura”.

L’ufficio legale di Twitter era in quel momento presieduto da Jim Baker, egli stesso ex legale dell’FBI, coinvolto nell’inchiesta Russiagate, e licenziato da Elon Musk a inizio dicembre dopo essere stato scoperto a ritardare il rilascio dei Twitter Files, specialmente di quelli che implicavano l’FBI.

Nel nome della guerra alle fake news

Questo conferma quanto riportato da The Intercept su come la sorveglianza dei social media da parte del governo federale sia stata incrementata dall’amministrazione Biden tramite misure come, ad esempio, la trasformazione della CISA, una sotto-agenzia del Department of Homeland Security nata per impedire attacchi cibernetici contro infrastrutture strategiche, in una agenzia di “caccia alla disinformazione“.

Abbiamo già notato come la “guerra alle fake news“, con tutti i suoi corollari di sorveglianza e censura, sembra essere cominciata intorno al 2015-2016 a causa della percepita “onda populista” nella politica occidentale.

Matt Taibbi conferma che, a giudicare dai documenti Twitter, “l’ubiquità della storia dell’interferenza russa nel 2016 come pretesto citato per la costruzione della macchina di censura non può essere sovrastimata. È simile a come l’11 Settembre ispirò l’espansione della sicurezza di Stato”.

Portali speciali

Nel corso del Russiagate l’FBI creò una task force apposita, denominata FITF (Foreign Influence Task Force), che crebbe fino a comprendere 80 agenti.

I Twitter Files confermano che l’FBI e altre agenzie federali avevano a disposizione portali speciali, sia governativi che privati, attraverso i quali segnalare contenuti che poi Twitter “gestiva” (handled), censurandoli o sopprimendo la loro diffusione.

Tra i portali citati Teleporter, e il Partner Support Portal, creato dal Center for Internet Security, una no-profit basata a Washington DC che agisce in cooperazione con il DHS. Poi l’Election Integrity Project di Stanford, il Digital Forensics Research Laboratory dell’Atlantic Council, e il Center for Informed Policy dell’Università di Washington.

Si tratta per la maggior parte di organizzazioni private, no-profit e ong, che comunque orbitano intorno al governo, sia in forma di partnership, sia a livello di contatti personali.

A questi si aggiungono contractor privati del governo federale, come nel caso di un messaggio inviato a Twitter dall’EIP di Stanford su un video riguardante le elezioni in Pennsylvania, sulla base di informazioni ottenute dal Center for Information Security, un contractor del DHS.

L’FBI segnala, Twitter esegue

La sintonia era completa: queste organizzazioni para-governative segnalavano contenuti sgraditi alle agenzie federali, che le segnalavano a Twitter, che provvedeva a rimuoverle.

In un particolare messaggio l’FBI segnala a Twitter certi contenuti con la dicitura: “Possibile violazione dei termini di servizio Twitter“, che evidentemente l’agenzia federale conosceva altrettanto bene che Twitter stesso.

Il 5 novembre 2022 il National Election Command Post dell’FBI manda una lunga lista di account Twitter all’ufficio di San Francisco, chiedendo di inoltrarla a Twitter. Tra le richieste, oltre alla verifica di eventuali violazioni dei termini di servizio, la preservazione dei contenuti in caso di cancellazione, e addirittura la geolocalizzazione degli autori.

Per la maggior parte si tratta di account satirici di piccola portata, con due notabili eccezioni: l’account appartenente all’attore Billy Baldwin e l’account del sito di news conservatore RSB Network.

L’agente Elvis Chan dell’ufficio di San Francisco, un nome che ricorre spesso nei Twitter Files come contatto tra l’FBI e gli alti vertici dell’azienda, passa il messaggio a Twitter. Twitter risponde con una lista di azioni intraprese: un misto di sospensioni e messe al bando permanenti.

Risultati modesti

I risultati di questa grande caccia alla disinformazione sembrano però modesti. Vengono segnalati molti account di entrambi gli schieramenti politici, ma che per lo più fanno satira, oltre a oscuri video come quello sulle elezioni in Pennsylvania.

Alcuni account vengono segnalati anche solo per tweet chiaramente ironici, come @FromMa, un account liberal che “ricordava” ai Repubblicani di votare nella data sbagliata. Tuttavia spesso sono soltanto gli account filo-Repubblicani a venire sospesi. Assolutamente nessuna traccia invece di account del Cremlino.

Deep State

Alla luce di quanto emerso da questo ultimo lotto di Twitter Files, Matt Taibbi arriva ad una conclusione alla quale chi scrive era già arrivato in passato: “Il succo del discorso: ciò che la maggior parte della gente considera il Deep State è in realtà una intricata collaborazione di agenzie statali, contractor privati, e ong a volte finanziate dallo Stato. I confini diventano così labili da essere insignificanti”.

E non bisogna dimenticare che Twitter non è l’unica in Silicon Valley ad avere questo tipo di rapporto con il Deep State. Mark Zuckerberg ha rivelato che fu l’FBI a chiedere a Facebook di censurare la storia del laptop di Hunter Biden. The Intercept cita anche Reddit, Discord, Wikipedia, Microsoft, LinkedIn e Verizon Media tra quanti hanno riunioni regolari con agenzie federali.

Aggirato il Primo Emendamento

Tutto questo proietta una luce sinistra sullo stato della libertà di espressione negli Stati Uniti, e per estensione in tutto l’Occidente, in cui i social media americani dominano. Il Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che garantisce la libertà di espressione, non può essere aggirato delegando manipolazione e censura delle notizie a compagnie private e organizzazioni non governative.

È difficile tuttavia immaginare che nella politicamente incestuosa Washington DC qualcuno se la senta di scoperchiare un tale vaso di Pandora di agenzie federali, ong, Big Tech, e individui che fanno la spola tra essi, facendo luce su questi abusi di potere al di là della solita indagine “tarallucci e vino” del Congresso.

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