Il settimo capitolo dei Twitter Files, curato da Michael Shellenberger, riprende la storia del laptop di Hunter Biden, presentando ulteriori prove che dimostrano uno “sforzo organizzato” da parte dell’FBI e della Intelligence Community per screditare le informazioni – veritiere – riportate dal New York Post sia prima che dopo la loro pubblicazione, il 14 ottobre 2020.
Canali diretti
La sera del 13 ottobre, l’agente speciale dell’FBI Elvis Chan, della task force sull’interferenza straniera, invia dieci documenti all’allora capo del team Trust&Safety di Twitter, Yoel Roth, tramite Teleporter, un canale di comunicazione unidirezionale dal Bureau ai vertici del social media.
L’esistenza di tali “portali” era già emersa dai precedenti lotti di Twitter Files, a riprova della stretta collaborazione tra il social e il Bureau.
L’FBI sapeva
Il giorno successivo, il New York Post pubblica la sua storia rivelando le email contenute nel laptop, dalle quali emergono chiaramente gli affari con l’estero della famiglia Biden. Decine di milioni di dollari in contratti con aziende straniere, comprese alcune legate al governo cinese, per le quali Hunter non aveva offerto alcun lavoro reale, se non la posizione apicale del padre Joe, allora vicepresidente.
Da notare: l’FBI sapeva che ogni singolo fatto riportato era corretto, veritiero, perché il laptop l’aveva ottenuto mesi prima, nel dicembre 2019, dal negoziante presso cui era stato portato in riparazione e abbandonato.
Nell’arco di poche ore però, cala la mannaia della censura. I social limitano o impediscono del tutto la circolazione dell’articolo e Twitter arriva a sospendere l’account del quotidiano.
Gli avvertimenti
Nel primo episodio dei Twitter Files, Matt Taibbi ha ricostruito il dibattito interno a Twitter che portò alla decisione di censurare la storia. E già in precedenza erano emerse prove del tentativo dell’FBI di influenzare Twitter e altre piattaforme, come Facebook, inducendole alla censura.
Lo stesso Roth dichiarò sotto giuramento alla FEC (Federal Election Commission) di essere stato avvertito dall’FBI dell’arrivo di una storia su Hunter Biden risultato di un hackeraggio nelle settimane immediatamente precedenti le elezioni del 2020:
Durante questi incontri settimanali, l’FBI comunicò che si aspettavano operazione “hack and leak” da attori statali poco prima dell’elezione presidenziale del 2020, probabilmente in ottobre. (…) Ho anche appreso in questi incontri che c’erano voci che un’operazione “hack and leak” avrebbe coinvolto Hunter Biden.
A confermare questi incontri settimanali e l’avvertimento ai social di una operazione “hack and leak” poco prima del voto, la testimonianza dello stesso agente Chan nella causa intentata contro il governo federale dagli Attorney General di Missouri e Louisiana.
Poco prima, questa estate, arrivò l’ammissione (anche di questa avevamo già parlato qui su Atlantico Quotiano) di Mark Zuckerberg al podcast di Joe Rogan. La decisione di censurare la storia del laptop fu presa proprio a causa dell’avvertimento dell’FBI ricevuto in quei giorni:
In pratica l’FBI venne da noi e disse: “Dovreste stare in allerta… Pensavamo che ci fosse molta propaganda russa nelle elezioni del 2016, abbiamo notato che in pratica sta per esserci una specie di schifezza simile a quella, quindi siate vigili”. E se l’FBI viene da noi e ci dice che dobbiamo stare in guardia su qualcosa, noi la prendiamo sul serio.
Nessuna interferenza straniera
Gli avvertimenti dell’FBI di un’operazione di “hack and leak” russa che avrebbe coinvolto Hunter Biden erano forse basati su una qualche nuova informazione? No, non lo erano. “Dalle nostre indagini, non abbiamo visto intrusioni simili a quanto accaduto nel 2016″, ha ammesso l’agente Chan interrogato il 29 novembre.
E in effetti, i dirigenti di Twitter “ripetutamente” riportavano pochissime attività russe. Ad esempio, Shellenberger cita il messaggio del 24 settembre 2020, in cui Twitter riferiva all’FBI di aver rimosso 345 account “in gran parte inattivi”, “collegati a precedenti tentativi di hacking russi coordinati”. Poca roba: “portata limitata” e “pochi follower“.
Le pressioni dell’FBI
Dalle comunicazioni emergono le pressioni crescenti dell’FBI, ma i vertici di Twitter rispondono sempre di non aver visto alcuna prova di interferenza straniera. Nel gennaio 2020, Roth resiste alle richieste dell’FBI di condividere i dati al di fuori di un normale mandato di perquisizione.
Scrive un altro dirigente di Twitter: “Abbiamo visto uno sforzo prolungato (se non coordinato) da parte dell’IC [Intelligence Community, ndr] per spingerci a condividere più informazioni e modificare le nostre politiche API. Stanno indagando e spingendo ovunque riescano”.
L’FBI non demorde ma la risposta è sempre la stessa: niente di niente. “Non abbiamo ancora individuato attività che solitamente vi riferiremmo (o che addirittura segnaleremmo come interessanti nel contesto dell’influenza straniera)”. E insiste anche per ottenere informazioni che Twitter ha già chiarito non avere intenzione di condividere al di fuori dei normali canali legali.
Nel luglio 2020, l’agente Chan dell’FBI “provvede a nulla osta di sicurezza top secret temporanei per i dirigenti di Twitter in modo che l’FBI possa condividere informazioni sulle minacce alle imminenti elezioni”.
L’innesto della teoria dell’hackeraggio
L’11 agosto, condivide con Roth, tramite Teleporter, informazioni relative all’organizzazione di hacker russi APT28. Di recente, Roth ha dichiarato di essere stato preparato a pensare al gruppo APT28 prima che venisse fuori la storia del laptop di Hunter Biden: “Ha fatto scattare ognuno dei miei campanelli d’allarme finemente sintonizzati su una campagna di hack-and-leap di APT28“.
Sempre in agosto, Chan chiede ai dirigenti di Twitter se qualcuno di loro ha un’autorizzazione top secret. Qualcuno menziona Jim Baker, ex consigliere generale dell’FBI, in quel momento al servizio di Twitter. Lo stesso Baker che aveva avuto un ruolo centrale nel sostenere internamente la necessità di un’indagine su Donald Trump. Ma nel 2020, c’erano così tanti ex dipendenti dell’FBI a Twitter che avevano creato il loro canale Slack privato.
Nel settembre 2020, Roth partecipò, insieme alle sue controparti di Facebook e delle principali testate Usa, ad una sorta di “simulazione” dell’Aspen Institute su una potenziale operazione “hack-and-dump” relativa proprio a Hunter Biden.
L’obiettivo era stabilire il modo in cui i media, e i social media, dovessero coprirlo. Ricordiamo sempre che l’FBI era già a conoscenza del laptop e dei suoi contenuti.
Entro la metà di settembre 2020, Chan e Roth avevano creato una rete di messaggistica criptata in modo che i dipendenti dell’FBI e di Twitter potessero comunicare. Concordarono anche di creare una “war room virtuale” per “tutta l’industria di Internet più FBI e Ufficio del direttore dell’Intelligence nazionale”.
Quindi, il 15 settembre, Laura Dehmlow, a capo della task force sull’interferenza straniera dell’FBI, ed Elvis Chan, chiedono di tenere un briefing riservato per Jim Baker, senza che nessun altro membro dello staff di Twitter, nemmeno Roth, fosse presente.
Il 14 ottobre, poco dopo la pubblicazione della storia del laptop sul New York Post, Roth afferma: “non viola chiaramente la nostra policy sui materiali hackerati, né viola chiaramente nient’altro”, ma aggiunge, “sembra molto una qualche sottile operazione di leak“.
In risposta a Roth, Baker insiste ripetutamente sul fatto che i materiali di Hunter Biden erano falsi, hackerati o entrambe le cose, e che violavano la policy di Twitter, sostenendo la decisione di limitare l’accesso all’articolo.
Eppure, il New York Post aveva allegato alla sua inchiesta l’immagine della ricevuta firmata da Hunter Biden e un mandato dell’FBI che mostrava come l’agenzia fosse entrata in possesso del laptop già nel dicembre 2019, ben dieci mesi prima.
La decisione
Alle 10 del 14 ottobre, i dirigenti di Twitter avevano già adottato la versione del “hack-and-dump”: “Il suggerimento degli esperti – che suona vero – è che ci sia stato un hackeraggio avvenuto separatamente, e abbiano caricato i materiali hackerati sul laptop apparso magicamente in un negozio di riparazioni nel Delaware”.
Alle 15.38 dello stesso giorno, Baker organizza una conversazione telefonica con Matthew J. Perry nell’Ufficio del General Counsel dell’FBI.
Già a luglio 2020, l’FBI era intervenuta addirittura al Congresso per screditare le prove raccolte dai senatori repubblicani Chuck Grassley e Ron Johnson, che chiarivano il modo in cui la famiglia Biden aveva sfruttato l’influenza politica di Joe, quando era vicepresidente di Obama. In un briefing ai senatori, l’FBI riferì di prove di “interferenza russa” nelle loro indagini.
“L’inutile briefing dell’FBI ha fornito ai Democratici e ai media liberal il veicolo per diffondere la loro falsa narrazione secondo cui il nostro lavoro ha favorito la disinformazione russa”, protestarono in vano i senatori Grassley e Johnson.
Soldi dell’FBI a Twitter
Alla fine, conclude Shellenberger, “la campagna di influenza dell’FBI sui dirigenti dei media, di Twitter e altre società di social media ha funzionato: hanno censurato e screditato la storia del laptop di Hunter Biden“.
Un argomento particolarmente convincente potrebbe essere stato il versamento a Twitter di milioni di dollari sotto forma di “rimborso” per il tempo impiegato dal suo personale per “evadere” le richieste dell’FBI: “Sono felice di annunciare che abbiamo raccolto 3.415.323 di dollari da ottobre 2019!” riferisce un socio di Jim Baker nel febbraio 2021.
Dai Twitter Files emergono prove sempre più schiaccianti di come il governo Usa, le sue agenzie federai, abbiano appaltato la censura alle società di BigTech, addirittura retribuendole per il loro impegno con i soldi dei contribuenti.