Viva la minigonna, anche a scuola! Divisa di emancipazione femminile

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Sulla pelle delle donne si gioca il destino del mondo. È sempre stato così. Il femminile è non solo l’oggetto del desiderio ma anche la pietra dello scandalo su cui poggia il racconto biblico, su cui i testi sacri giustificano repressioni e limitazioni. La donna crea la vita (e può farla terminare) e sul corpo delle donne le legislazioni di tutti i sistemi di governo del pianeta hanno legiferato. Democrazie comprese.

Ha fatto scalpore in queste settimane la presa di posizione di alcuni sedicenti intellettuali di destra, che hanno giustificato non solo la sciagurata uscita della preside dell’istituto scolastico romano “Socrate” che ha imposto il divieto di minigonna, altrimenti al “professore cade l’occhio”, ma anche l’uscita ancora più infelice dei soloni del “legge e ordine” che hanno ricominciato a suonare la tromba del “rimettiamogli la divisa”. Una roba pecoreccia. Quasi patetica visti i tempi e la velocità con cui il mondo ci sta cambiando sotto gli occhi. Anche perché, ficcatevelo bene in testa: la divisa può essere giustificata in un istituto privato, dove chi va lì sa che ci sono regole imposte che paga per seguire. Mai e poi mai le stesse regole possono e debbono essere imposte nelle scuole pubbliche. Dove le sensibilità e le convinzioni, politiche e religiose, sono le più disparate (per fortuna).

La mia domanda però ai sedicenti intellettuali di destra è la seguente: com’è possibile che vi scagliate, giustamente, contro il gender e poi cadiate in una così meschina tiritera degna dei più bigotti reazionari anni ’50? Osteggiate il gender perché elimina le differenze fra maschio e femmina, fra biologico e naturale e frutto di libera scelta, perché quello stesso femminile lo riduce a carosello colorato per bimbiminchia figli di hippy ricchi, e poi negate l’essenza, anzi la quintessenza del femminile; il voler mostrare le gambe, l’essere civettuole, seducenti e piacenti. Fate pace col cervello. Guardatevi attorno. A Strasburgo, giorni fa, tre esponenti di quella religione che funesta il mondo col terrorismo da decenni hanno picchiato una donna rea di indossare una gonna, appunto, troppo succinta. La foto presente in questo articolo mostra donne negli anni ’60 a Kuwait City, quando ancora il virus di quella religione non aveva infestato il vivere civile e la convivenza, e non aveva legiferato in maniera tirannica sul corpo delle donne; non le aveva ridotte a oggetto del desiderio nascosto agli altri blindandolo sotto una corazza di veli.

L’obiezione più stupida che certi intellettuali di destra fanno per giustificare il ritorno delle divise a scuola è che per ogni contesto esista un abbigliamento. Certo, chi lo nega. Ma, appunto, il contesto scolastico, pubblico sopratutto, è un contesto non solo di studio, ma di convivialità, scherzo, amicizia, cameratismo, complicità, sport, divertimento, scontro, crescita. Un conto è dare un suggerimento tipo: “Non venite in classe con le infradito quando fa caldo”, un altro è imporre una divisa per maschi e femmine. Come nelle peggiori tradizioni fasciste (o islamiste, se mi trovate la differenza).

Povera Mary Quant, inventrice della minigonna (a cui diede il nome in onore della Mini Cooper che lei adorava). Si starà rigirando nella tomba. Il suo motto era, vestitevi per dar piacere a voi stesse e trattate la moda come un gioco. Era una donna del popolo, i nonni erano minatori e i genitori si guadagnarono il titolo di studio per diventare insegnanti. Una roba che all’epoca poteva ancora succedere, cioè di essere in grado di salire nella scala sociale avendo idee innovative, soprattutto di libertà. Quando inventò la minigonna e gli hotpants le gonne naturalmente si stavano già accorciando. Le inventò, disse, perché le donne su King’s Cross potessero muoversi più liberamente, saltare su un bus al volo. Camminare più leggere. La femminilità, aggiungeva, era data non tanto dall’oggetto in sé ma da come lo si indossava.

L’attacco delle destre, oggi, al ’68, al suo aver rinnovato i costumi, le regole, le credenze, le gerarchie è totalmente (volutamente?) fuori obiettivo. È un attacco subdolo alla sostanza (all’anelito di libertà e svecchiamento, contro il bigottismo occidentale e il provincialismo borghese) e invece, a mio modesto pare, dovrebbe essere ai fautori del movimento; tutti esponenti dell’alta borghesia, di quella élite progressista che non aveva nessuna intenzione di favorire e liberare davvero il popolo ma semplicemente, come poi di fatto è avvenuto, un ricambio di potere fra pari (i figli dei ricchi che volevano prendere il posto dei padri e occupare i centri di comando). Nei giorni delle polemiche, quando perfino un giudice disse che lo stupro di una povera donna rumena nel nord Italia era avvenuto anche per via dell’attività e attitudine licenziosa della vittima (ammorbidendo leggermente la pena allo stupratore), Loredana Bertè ha postato su Facebook una splendida foto di quand’era giovane. In bici, mini-mini gonna. Sguardo felino e arrapante. Riporto il suo testo, che si riferisce agli anni ’70 del secolo scorso, affinché rimanga il manifesto di tutte le donne occidentali, soprattutto delle ragazze liceali e universitarie in questo momento in cui a sinistra difendono le islamiche col velo e a destra vogliono irregimentarle di nuovo in una divisa, perché esisterebbero i contesti appropriati.

“Quando andavo all’Istituto d’arte arrivavo con la minigonna e due pennelli in tasca, quando giravo in bici le auto si tamponavano perché gli autisti si giravano a guardarmi. All’epoca la minigonna era considerata scandalosa ed io fui pure sospesa per questo ma ne ho fatto la mia divisa di emancipazione femminile. Ognuno è libero di vestirsi come vuole, essere chi crede ed amare chi sceglie di amare. Grazie Mary Quant”.

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