Gli argomenti forniti in questi giorni dagli acchiappacitrulli verdognoli sono molti ed esilaranti, se non avessero anche un loro risvolto tragico. Avrei voluto scrivere in merito alla rinnovata crociata contro i rutti e le puzzette delle vacche, problema del tutto inesistente, contro il quale i soliti geni hanno pensato di utilizzare, come arma di distruzione di massa (massa intesa come quantità di metano), un composto chimico dall’aspetto non propriamente appetitoso (basti leggere le indicazioni di pericolo per la salute): il 3-nitroossi propanolo (3-NOP), un inibitore enzimatico che ridurrebbe la metanogenesi nel sistema digerente dei ruminanti. L’additivo si chiama Bovaer ed è utilizzato, tra le altre, da un’azienda danese di nome Arla. Ricordo che la Danimarca è la nazione che ha anche promulgato una legge per tassare le flatulenze delle vacche. Per fortuna alla citrullaggine c’è un limite, e molti consumatori di prodotti lattiero-caseari si sono ribellati: in Gran Bretagna molte persone stanno iniziando a boicottare i prodotti lattiero-caseari Arla e di altre aziende associate, che usano 3-NOP per le loro vacche da latte.
Purtroppo, la stringente attualità della crisi della filiera industriale automobilistica, e le dichiarazioni sempre più lunari dei pasdaran “green” e di quelli a loro accomunati da 50 sfumature di verde, mi costringono a parlare, obtorto collo, dell’auto elettrica. A proposito, vi ricordate cosa dichiarava, solo alcuni mesi or sono a Quarta Repubblica, con sicumera degna di miglior causa, quel grazioso portatore di utero, biondo all’apparenza, ma verde verde dentro? Ve lo ricordo io: “Nessuno perderà il posto di lavoro a causa della transizione verde che, anzi, ne creerà migliaia di nuovi. Tutt’al più si tratterà di riconvertire qualche professionalità”. Mi piacerebbe che lo andasse a raccontare alle migliaia di operai, in tutta Europa, che sono stati licenziati, e a quelli che lo saranno a breve. Ma veniamo alla disamina delle cause che, secondo i dotti catastrofisti climatici, avrebbero portato alla crisi dell’auto in Europa, e che mi hanno spinto a non parlare di vacche e ruttini.
Dichiarazione apodittica numero 1: non è che le nuove generazioni non vogliano le auto a batterie, non vogliono semplicemente l’auto che, come bene di consumo, è passata di moda, è un relitto del passato.
Obiezione: alcuni decenni fa, l’auto rappresentava, per i ragazzi, l’indipendenza assoluta. Con poche lire in tasca si possedeva il mondo. L’auto consentiva di abbattere le barriere spazio-temporali, di emanciparsi dal controllo dei genitori, di possedere, finalmente, un minuscolo spazio privato, dove poter parlare liberamente con gli amici più cari e tentare le prime goffe avances con la ragazzina tanto agognata. La patente era un vero e proprio rito di iniziazione e, tutto sommato, i prezzi di acquisto dell’oggetto tanto desiderato erano ragionevoli, così come i costi di mantenimento. Con il passare degli anni tutto è cambiato. L’avidità dello stato è arrivata a spremere fino all’osso i possessori di veicoli, ma gli introiti, invece di essere investiti nella viabilità per decongestionare il traffico e diminuire l’inquinamento, nella manutenzione della rete viaria, nei parcheggi, ecc., sono finiti, in gran parte, nell’enorme ventre della spesa pubblica. A tutto ciò si aggiungano i blocchi a capocchia del traffico, i limiti di velocità, talvolta assurdi, l’esosa tassa di possesso (roba da socialismo reale), il costo proibitivo delle assicurazioni, della manutenzione, dei carburanti, e chi più ne ha, più ne metta. Infine, con “la morte verde” che ha contagiato ideologicamente tutto e tutti, gli automobilisti sono considerati ormai una via di mezzo tra un pedofilo e Jack lo squartatore. Insomma, chi possiede un’auto oggi, è o un disperato o è un multimilionario. Il vento del socialismo reale, il cui colore è virato dal rosso al verde, ha dato finalmente i suoi venefici frutti ed è riuscito a plagiare, irrimediabilmente, le ultime generazioni. Speriamo nelle prossime.
Dichiarazione inconfutabile numero 2: la crisi di Stellantis in Italia è causa del “fassistissimo” governo Meloni, che ha tagliato 4,6 miliardi di euro al Fondo Automotive per sostenere la produzione di veicoli elettrici (EV) (più fine “la riconversione ecologica dell’industria automobilistica italiana”).
Obiezione: non si capisce bene perché i nostri soldi debbano finire nelle tasche di aziende straniere, per sostenere una produzione per la quale non c’è domanda. A prescindere dai fumosi impegni che l’azienda in questione avrebbe preso con il Governo, per mantenere almeno una minuscola parte della produzione in Italia, non va dimenticato che il 40% circa del costo dell’auto elettrica è costituito dalla batteria. E dove vengono prodotte le batterie? E dove finiscono, di conseguenza, i nostri soldi? Ma l’Europa, con un poderoso scatto di reni, ha deciso di emanciparsi dal monopolio cinese; ha sovvenzionato, anche con i nostri soldi, un gigafactory per la produzione autarchica di batterie, la Northvolt! Peccato che il gigante delle batterie sia diventato il più grande fallimento industriale europeo. E l’avrebbe capito anche l’ultimo dei citrulli che pensare di produrre batterie in Europa sarebbe stato un fallimento, a causa degli infiniti vincoli burocratici che abbiamo, del possesso, quasi esclusivo, da parte della Cina di tutte le materie prime essenziali per la loro produzione, e del divario tecnologico che c’è con il gigante asiatico. Il risultato è che, molto probabilmente, la Northvolt sarà acquistata dai … cinesi!
Dichiarazione inoppugnabile numero 3: il progresso non si può arrestare. Non investire sull’elettrico vuol dire essere tagliati fuori dal mercato dell’auto. La Cina insegna: ormai le auto elettriche costituiscono la percentuale maggiore del loro parco circolante.
Obiezione: a parte il fatto che ci siamo già tagliati fuori dal mercato dell’auto (meglio, dei veicoli), puntando su una tecnologia che non possediamo e su un prodotto che il mercato non vuole, da quando in qua la Cina è diventata il nostro faro, il nostro modello di sviluppo (i maligni potrebbero rispondere: “Dal ’68”)? Il modello cinese è sicuramente funzionale a quel sistema per alcune ragioni, che cercherò di esporre brevemente. La Cina ha una quantità enorme di carbone, ma le sue risorse di petroli e gas naturale sono piccole in confronto. Pertanto, la Cina ha raddoppiato le sue autorizzazioni di impianti a carbone nel 2023, e la Cina ora ha 243 GW di energia da centrali a carbone in costruzione o autorizzate, e il numero sale a 392 GW con i progetti attualmente annunciati o in fase di preparazione, ma non ancora autorizzati (per un raffronto, la potenza elettrica netta istantanea richiesta dall’Italia è di circa 40 GW). Ciò significa che la sua capacità di produzione di energia da carbone potrebbe aumentare dal 23% al 33% rispetto ai livelli del 2022. Praticamente le EV cinesi vanno… a carbone. Altro motivo, lo Stato socialista può rendere totale il controllo sulla popolazione. Infatti, quando l’auto elettrica si ricarica, può ricostruire tutti i suoi spostamenti, e può, all’occorrenza, bloccarne la ricarica e l’utilizzo. Un ulteriore motivo è che la Cina aveva un ritardo tecnologico incolmabile con l’Occidente sui motori endotermici, mentre aveva il monopolio pressoché totale dei materiali essenziali per la transizione green. Della serie: come conquistare l’Occidente senza sparare un colpo.
E adesso veniamo al dunque: siamo sicuri che per noi europei i veicoli elettrici rappresentino il futuro, o che invece non si tratti di una tecnologia per noi morta in partenza? Il dubbio che mi assale è generato dalle seguenti considerazioni: ho l’impressione che si voglia costruire un grattacielo, privo di fondamenta. L’Europa, infatti, non potrà mai affrancarsi dalla dipendenza pressoché totale dalla Cina, se vuole perseguire pervicacemente la svolta elettrica. Da tempo, ormai, tutte le risorse chiave sono in mano ai cinesi, e non potremo mai produrle internamente a causa degli infiniti vincoli e dell’asfissiante burocrazia che attanagliano l’Europa. E quando si parla di fonti energetiche rinnovabili (pannelli solari e generatori eolici) si dice una mezza verità, in quanto sono fonti che devono essere rinnovate con una frequenza ben maggiore, rispetto a quella di una centrale termoelettrica.
Aggiungiamoci poi il fatto che il nostro divario tecnologico con la Cina richiederebbe investimenti enormi (sempre soldi che escono dalle nostre tasche) per essere, forse, colmato; il caso delle nostre gigafactory lo dimostra. Altra considerazione, per renderci autosufficienti con fonti “da rinnovare periodicamente”, dovremmo devastare la natura, disseminandola di colate di cemento armato per i turbogeneratori, o coprendo campi agricoli con funerei parallelepipedi climalteranti. A proposito, le manovre per diminuire la produttività dei terreni agricoli (rinaturazione, riduzione dei concimi e dei fitofarmaci, ecc.) stanno già sortendo l’effetto di obbligare molti agricoltori a cedere i loro campi alle aziende per la produzione di energia “green” che li sfrutteranno per installare pannelli fotovoltaici. Vorrà dire che per mangiare infileremo due dita nella presa di corrente!
Traendo le debite conclusioni, penso che sia inutile puntare su questo modello di transizione “green”, che si basa sulla pressoché totale dipendenza dalla Cina, che ci obbligherebbe a stravolgere le nostre regole di tutela ambientale e di sicurezza, che ci obbligherebbe a pagare enormi investimenti per potenziare la rete elettrica (a proposito, chi è il maggiore produttore di ferro-silicio, indispensabile per i trasformatori delle cabine elettriche? Indovinato!). Non è meglio, allora, puntare su fonti energetiche diverse, più affidabili e continue, di cui possediamo la tecnologia, e meno impattanti sull’ambiente? L’alternativa c’è, basta rinunciare alle ideologie (le nemiche delle idee), e rimboccarsi le maniche.
Carlo MacKay, 9 Dicembre 2024