Ieri la Corte costituzionale ha reso noto il comunicato con cui ha deciso i ricorsi presentati dalle Regioni Puglia, Toscana, Sardegna e Campania sulla questione di legittimità costituzionale della legge 26 giugno 2024, n. 86 per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione. Fermo restando che è necessario attendere il deposito della sentenza per avere un quadro più ampio della decisione della Consulta, emergono, in ogni caso, alcuni dati incontrovertibili.
Innanzitutto, la Corte ritiene infondata la questione di legittimità costituzionale dell’intera legge, che è, quindi, coerente con la forma di Stato decentrata prevista dal quadro costituzionale, mentre ritiene incostituzionali solo alcune disposizioni interne alla predetta normativa. Alla luce di ciò, si intuisce chiaramente che i quesiti referendari relativi all’abrogazione della legge sull’autonomia differenziata sono stati superati dallo stesso Giudice delle leggi. D’altro canto era già palese l’infondatezza costituzionale del quesito referendario richiesto dal Partito democratico e dal Movimento Cinque Stelle che testualmente recita “volete Voi che sia abrogata la legge 26 giugno 2024, n. 86 «Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione»?”, in quanto, con il predetto quesito, si sarebbe chiesto di abrogare una legge – la n. 86 del 2024 – adottata per attuare un istituto previsto dalla nostra Carta costituzionale all’art. 116, terzo comma. Questo perché viene contestata una legge a contenuto costituzionalmente obbligatorio e pertanto non assoggettabile ad un referendum abrogativo. Si tratta, infatti, di un limite implicito all’art. 75 della Costituzione, così come affermato da numerose sentenze della stessa Corte costituzionale (tra le tante, la n. 16 del 1978).
Tuttavia la Corte ha ritenuto incostituzionali alcune disposizioni interne, in particolare quelle relative agli equilibri tra Stato e Regioni e tra governo e Parlamento. In particolare sono stati ritenuti incostituzionali i trasferimenti di interi blocchi di materie o ambiti di materie dal centro alla periferia che potrebbero minare gli equilibri sociali. Tali trasferimenti, per la Corte, devono essere solo specifici e giustificati nel rispetto del principio di sussidiarietà. Per quanto riguarda il rapporto tra governo e Parlamento, invece, la Corte tende a salvaguardare il ruolo dell’organo legislativo, laddove la legge prevede, diversamente, che le decisioni sostanziali possano essere adottate solamente dall’Esecutivo, in particolare quando si stabilisce che sia un decreto del presidente del Consiglio dei Ministri a determinare l’aggiornamento dei livelli essenziali di prestazione (i c.d. LEP).
Infine, altre disposizioni della legge vengono ritenute legittime, ma devono avere una interpretazione costituzionalmente orientata. Si tratta del caso in cui l’iniziativa legislativa sulla legge di differenziazione non può essere riservata unicamente al governo; inoltre viene salvaguardato il potere di emendamento delle Camere, poiché la legge di differenziazione non può essere solamente di mera approvazione dell’intesa, prevedendo, in ogni caso, la sua rinegoziazione a seguito proprio di un emendamento parlamentare. Infine, laddove ci siano materie senza livelli essenziali di prestazioni, la maggiore autonomia non potrà gravare sui diritti. In questi termini, la legge sull’autonomia differenziata è compatibile con la nostra forma di Stato che è, comunque, decentrata, ferma restando l’unità e l’indivisibilità nazionale ai sensi dell’art. 5 della Costituzione.
Conclude il comunicato che, ovviamente, spetta al Parlamento il compito di colmare i vuoti legislativi resi tali dalla pronuncia della Consulta. Comunque, per una più efficace e dettagliata analisi della sentenza, è necessario attendere la pubblicazione della stessa.
Giovanni Terrano, 15 novembre 2024
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