Chiesa

Ave Maria a scuola, la libertà dell’insegnante è sacra

Marisa Francescangeli, insegnante della primaria di San Vero Limis, è stata sospesa per la preghiera in classe

La disciplina è fatta di abitudini, di esercizio. E niente come la preghiera comporta disciplina, ripetizione, come imparare a memoria le poesie. Si comincia con le preghiere, e non nell’ora di religione, ma per rendere Dio una presenza quotidiana. La Madonna, ave Maria, è la madre: ripensatene i versi. “Ave, o Maria, piena di grazia, il Signore è con te. Tu sei benedetta fra le donne e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù. Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte. Amen.”

Parole semplici e purissime. Una poesia. Qualcuno punirebbe un insegnante per aver fatto recitare questi versi: “Felice chi è diverso, essendo egli diverso. Ma guai a chi è diverso essendo egli comune.” Sono una preghiera. Anzi, un monito. Contro chi ostenta la propria diversità. Non dobbiamo subirlo ogni giorno, nella pubblicità, nella televisione, senza sanzioni? La libertà dell’insegnante è sacra, perché egli deve trasmettere il sapere. Lo studente deve apprendere. Poi, se il sistema di conoscenza non lo persuade, liberamente ribellarsi. A cosa, sennò? Se non sa.

Il Padre nostro è ancora più chiaro e fondante. “Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male. Amen.” Solo per l’amen capiamo che è una preghiera. Altrimenti ne intendiamo la forza fondante, il sostegno. Per anni i teologi e i catechisti hanno discusso sulla conclusine, finalmente mutandola, nella sua ambiguità che legittimerebbe l’azione disciplinare: “Non indurci in tentazione”. E quale subdolo padre lo farebbe? Quale severità vorrebbe esercitare? Ecco allora il più conveniente, e carico di misericordia : “Non abbandonarci alla tentazione”.

Cosa di diverso da: “Ma perché pria del tempo a sé il mortale, invidierà l’illusïon che spento. Pur lo sofferma al limitar di Dite? Non vive ei forse anche sotterra, quando gli sarà muta l’armonia del giorno, se può destarla con soavi cure nella mente de’ suoi? Celeste è questa corrispondenza d’amorosi sensi, celeste dote è negli umani; e spesso per lei si vive con l’amico estinto e l’estinto con noi, se pia la terra che lo raccolse infante e lo nutriva, nel suo grembo materno ultimo asilo porgendo, sacre le reliquie renda dall’insultar de’ nembi e dal profano piede del vulgo, e serbi un sasso il nome, e di fiori odorata arbore amica le ceneri di molli ombre consoli. Sol chi non lascia eredità d’affetti poca gioja ha dell’urna”.

Proibiremo di insegnare anche questo perché esalta i cimiteri e richiama l’eterno riposo: “L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua. Riposino in pace. Amen”. È la preghiera che viene dal cuore, il concetto del ricordo e dell’amore che lega ognuno di noi ai propri cari che non ci sono più. Sono parole inevitabili, come il respiro. Il respiro per i morti. Proibirle? Non insegnarle? Sembra una invocazione semplice, necessaria e si impara subito a memoria. Cosa c’entra la scuola laica? È la testimonianza della condizione umana, della precarietà e della speranza. Di un morto non si dice: “È in cielo!”, mentre lo si seppellisce sotto terra, in un loculo che lo separa e lo sprofonda, per andare a vistarlo nel suo sepolcro, immutabile e ultima casa: si recita in suffragio dei defunti soprattutto appena svegli al mattino e prima di coricarsi alla sera, insieme al Padre Nostro, l’Ave Maria e all’Angelo custode. Così ha sempre fatto e ci insegnato a fare mio padre prima di addormentarsi, alla fine del giorno operoso. In attesa del prossimo. Lui farmacista, che curava i corpi, e coltivava la propria anima e la nostra. Il padre è il primo maestro: sanzionare anche lui?

Una preghiera accorata l’Eterno riposo, ma se ci applichiamo ad analizzarla, troviamo la ripetizione per due volte della parola riposo. Al centro la luce, che si chiede splenda per i morti. Il ritmo sommesso e dolente, e allo stesso tempo accorato, forte. Lo stesso delle Messe da requiem composte da Orlando di Lasso, Mozart, Verdi, Fauré, che iniziano con l’introito gregoriano del Requiem. L’Eterno riposo deriva dal IV libro di Esdra (II 33-48), apocrifo dell’Antico Testamento:
“…expectate pastorem vestrum,requiem eternitatis dabit vobis, quoniam in proximo est ille, qui in finem saeculi adveniet. Parati estote ad praemia regni, quia lux perpetua lucebit vobis per aeternitatem temporis”.

“…aspettate il vostro pastore, vi darà l’eterno riposo perché è prossimo colui che deve venire alla fine dei secoli. Siate pronti e riceverete il premio del regno, perché nei secoli dei secoli splenderà su di voi la luce perpetua. Fuggite le tenebre del secolo presente, ricevete la gioia della vostra gloria”.
Il passo è ripreso dai Padri della Chiesa e nel VI secolo entra nel Graduale Romano, libro liturgico del Rito romano della Chiesa cattolica, ma è diffuso già da tempo sulle iscrizioni funebri. La formula Requiem aeternam det tibi Dominus et lux perpetua luceat tibi, identica alla nostra preghiera ma volta al singolare, si ripete nella necropoli cristiana di V secolo di Ain Zara, nei pressi di Tripoli in Libia.

Non è sufficiente la densità della sua storia a farlo insegnare? Non è sufficiente l’intensità del suo risalire dal profondo della nostra sensibilità di sopravvissuti, per dirlo all’unisono con i nostri allievi. Cosa ci deve unire, se non si intende che essere cristiani vuol dire essere uomini?
La donna di Lollove acconsente, e rilancia con convinzione.

Vittorio Sgarbi, 10 aprile 2023