Michela Murgia è riuscita nell’impresa di fare due figuracce in un colpo solo. Come di consueto, ha calato la sua solita scure femminista, ma questa volta non contro qualche cavernicolo destrorso sostenitore del patriarcato ma addirittura contro due insospettabili di sinistra: Roberto Benigni e Carlo Calenda. E che avrà fatto di male il povero Benigni che da anni ormai gira l’Italia tessendo le lodi di Beatrice, la donna angelo inviata da Maria Vergine per salvare il povero Dante impelagato nella selva oscura? Udite, udite sarebbe colpevole di aver ringraziato la moglie, Nicoletta Braschi, in occasione della ricezione del Leone D’oro a Venezia. Ricorderete il bel discorso dell’attore e regista toscano che è subito stato elevato ad inno femminista.
Ebbene, secondo la Murgia anche questo bel gesto sarebbe sintomo della condizione di inferiorità della donna rispetto all’uomo in quanto, a suo dire, sono sempre gli uomini che ricevono i premi e che ringraziano le rispettive compagne ma non accade mai il contrario. Inutile soffermarsi troppo sull’idiozia di tale argomentazione. Ormai andare contro la Murgia è come sparare sulla croce rossa. E sul web sia da destra che da sinistra è già esplosa l’ironia. Se proprio ci tiene, però, potremmo consegnarglielo noi un bel premio, e può stare assolutamente certa che il merito sarebbe tutto suo. Non dovrebbe nemmeno ringraziare un uomo. Perché, si sa, dietro una grande donna c’è sempre un grande uomo. Ma nel caso della Murgia no. È sempre tutta farina del suo sacco.
Ma veniamo a Calenda. In che cosa avrebbe espresso la sua misoginia il candidato sindaco di Roma? Il leader di Azione sarebbe reo, secondo la Murgia, di non aver citato il cognome di una sua candidata nelle affissioni elettorali della capitale. “Per la categoria donne di cui non sapremo mai il cognome, Carlo Calenda apre la campagna elettorale con Cecilia”, ha attaccato velenosa. Il problema è che questa donna di cognome non fa Rossi o Verdi ma Frielingsdorf. E che è stata lei stessa a fare questa scelta per semplificare la vita degli elettori. Ma “La difficoltà del cognome non è una motivazione valida”, secondo la ma doma amazzone sarda.