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Biagi: un grande diseducatore nazionale

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Cento anni fa nasceva Enzo Biagi, considerato uno dei grandi giornalisti del Novecento. Alla sua morte, nel 2007, Dino Cofrancesco, nostro collaboratore di penna, fu l’unica voce fuori dal coro a ricordare chi fosse stato davvero il giornalista, scrittore, conduttore televisivo e partigiano italiano. Ecco quanto scrisse su L’Occidentale.

È da notare la virulenza di certe polemiche tra uomini politici per il loro carattere personalistico e moralistico. Se si vuole diminuire o annientare l’influsso politico di una personalità o di un partito, non si tenta di dimostrare che la loro politica è inetta o nociva, ma che determinate persone sono canaglie, ecc., che non c’è “buona fede”, che determinate azioni sono “interessate” (in senso personale e privato) ecc. È una prova di elementarità del senso politico, di livello ancor  basso della vita nazionale”.

Queste parole, che non sono di un avvocato del Cavaliere, né di un columnist di Mediaset o del Giornale, ma del fondatore del Partito comunista italiano, Antonio Gramsci, mi sono tornate in mente leggendo i necrologi dedicati dai maggiori quotidiani nazionali alla figura di Enzo Biagi. Un grande diseducatore nazionale giacché pochi altri come lui hanno barattato per una facile popolarità l’ethos professionale del giornalista che all’applauso preferisce la schiettezza d’accenti e non rinuncia a trattare i problemi scottanti della vita nazionale solo perché, in tal modo, potrebbe perdere le simpatie di certi inquilini del Palazzo. Biagi, come Giorgio Bocca, come Maurizio Maggiani, è stato il maestro di quella retorica antiretorica, che tanto piace agli italiani, consistente nell’appellarsi al buon senso della “provincia profonda” per fare accettare disegni politici e programmi che, piacciano o no, vengono prodotti nei piani alti del sistema.

È il topos del Bruto e Cassio sono uomini d’onore. “Vi dicono così e così delle tasse, del mercato, della guerra irakena; sarà come dicono lor Signori, che conoscono tanti bei paroloni, ma uno come me, che è di Pianaccio, non si fa fregare…”. Questo stile, un tempo definito a torto qualunquistico, coglie due piccioni con una fava: solletica l’anti intellettualismo nazionale e, insieme, si pone al servizio di una ben precisa area politica senza darlo a vedere. Ovviamente quando le stesse maschere compaiono a destra, scendono in campo legioni di pubblicisti e intellettuali impegnati a denunciare l’antico odio dei conservatori e dei reazionari per la cultura e il tersitismo immarcescibile iscritto nel dna di certi ambienti giornalistici. In tal modo, se uno di Sant’Anna di Valdieri, dice “cose di sinistra” è la vox populi, se dice “cose di destra” diventa l’espressione della profonda provincia arretrata e controriformistica, che la buonanima di Piero Gobetti, avrebbe voluto bonificare con una autentica ‘riforma morale e intellettuale’ degli Italiani .

Tutto questo, si dirà, fa parte del normale gioco politico. Anche in altri paesi i Jacques Bonhomme e i John Doe vengono tirati per la giacchetta in questa o in quella direzione per ottenere i voti dell’uomo della strada. Da noi, però, il populismo moralistico assume una valenza diseducativa e mistificante che non ha eguali in altre parti del mondo. Esso, infatti, si traduce in una strategia occulta intesa a velare i rapporti effettivi di potere che segnano la vita nazionale da mezzo secolo a questa parte. Nelle sabbie mobili predisposte dai grilli parlanti sprofonda ogni velleità di sapere chi “muova effettivamente le fila”, quali siano le reali poste in gioco del conflitto sociale e politico di questi anni, cosa si celi nella lotta, spesso esasperata, dei simboli.

Di questa strategia Enzo Biagi è stato, per così dire, il momento plebeo. Il momento alto, invece, è rappresentato oggi da Barbara Spinelli, una sorta di Hannah Arendt in sedicesimo, che scrive gli articoli intingendo la penna nel calamaio dell’Imperativo categorico. Vale la pena citare quanto il profetico ardore le dettava su La Stampa del 25 febbraio u.s. – Il perdente radicale – a proposito della “malattia italiana”. “È un male non legato a una sola forza – |…| ma è una patologia che affligge la maggior parte dei politici e quasi tutta la classe dirigente (cioè chiunque eserciti indirettamente responsabilità nella polis: attori economici, intellettuali, giornalisti). I sintomi sono chiari: una perdita di memoria che sconfina nell’amnesia, una profonda sottovalutazione del pericolo che si corre quando s’occulta il passato, una mancanza continuativa di coscienza etica. Quel che si è dimenticato è l’epoca che segna il nostro tempo: dieci anni dominati da Berlusconi, caratterizzati da un rapporto arbitrario con la legge, una monocrazia televisiva, una confusione sistematica tra interesse pubblico e interesse privato. La minaccia che si sottovaluta è il ritorno di quell’esperienza. La coscienza etica mancante è quel che impedisce di riconoscere in se stessi la soggezione, radicata e quindi malata, alla forza di Berlusconi. Quest’ultimo continua a determinare il nostro modo di giudicare la politica, di semplificarla, di sprezzarla. In realtà sono nove mesi che gran parte della classe dirigente guarda al governo Prodi attraverso le lenti falsificatrici di Silvio Berlusconi”.

Forse non sarebbe caritatevole consigliare alla profetessa la lettura del gran libro di Bernard Crick, Difesa della politica: potrebbe averne un trauma leggendo che “siamo tutti sul mercato” e se si decide di scendere nella ‘feccia di Romolo’(specie se si è la compagna di un ministro in carica) non si possono indossare le penne dell’Arbitro morale. Il punto, però, è un altro ed è che l’antiberlusconismo teologico (sia nella versione populistico-biagiesca sia in quella arendtiana-spinellesca) sembra inventato dal mago David Copperfield per nascondere agli occhi del cittadino i giganteschi iceberg che minacciano la rotta della nave Italia.

Nessuno dei grandi attentati allo stato di diritto è diventato motivo d’allarme per il duo Sancho Panza (Biagi)/Chisciotte(Spinelli): non ha battuto ciglio dinanzi agli oltre trecentomila insegnanti immessi nei ruoli senza aver mai sostenuto un concorso, un vulnus gravissimo per la democrazia che sconteranno le giovani generazioni di laureati che potranno pure avere il genio di Kant o di Gauss ma non troveranno posto nella scuola pubblica, a causa del corporativismo sindacale; non si è mai chiesto quanto ci fosse di vero nell’accusa rivolta da Giulio Tremonti a Massimo D’Alema, nel corso di una popolare trasmissione televisiva, d’aver trasformato Palazzo Chigi in una Merchant Bank; non ha  mai messo sotto accusa quegli estesi settori del capitalismo italiano che, infischiandosi del mercato e delle sue regole, sarebbero pronti ad allearsi con la sinistra antagonista pur di ricavarne commesse e rapporti privilegiati con il potere; non si è mai preso la briga di leggere le analisi del sistema bancario italiano fatte da Oscar Giannino o quelle relative all’occupazione in Italia di economisti e giuslavoristi come Pietro Ichino.

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