Bigender, demigender, graysessuale: il manuale Lgbt è da manicomio

Lo speciale di Repubblica “Generi, identità e orientamenti”. Non si capisce più niente

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Omotransfobia (1)

Sembra affiorare qualcosa di psicanalitico – psichiatrico no, non arriviamo ad insinuare un impeto patologico – nell’ossessione di Repubblica per faccende strampalate e tutto sommato irrilevanti, inconsistenti quali la percezione sessuale, le infinite sfumature di gender. Ci vuole metodo e applicazione per realizzare uno speciale come questo “Generi, identità e orientamenti” che alla fine disorienta, confonde fin dalla grafica, petaloso capolavoro di sezioni che s’intersecano e sembrano il reticolo perverso dei poteri e delle istituzioni europee, tuttora arcane per il 99% dei cittadini europei che votano, sempre meno. Allo stesso modo, le distinzioni di lana caprina o di sesso degli angeli tracciate da questa Chiara Nardinocchi che non specifica, lei, essere se donna, non donna, intersessuale, androfila, ginefila.

Sì, c’è qualcosa di psicanalitico in tutto questo e difatti la misteriosa, forse cangiante curatrice si affida a un terapeuta, un esperto che queste priorità inderogabili le insegna all’università: lo psichiatra, psicanalista e docente Vittorio Lingiardi sdottoreggia, ma anche lui omette di classificarsi sia pure alla luce del generico mutante, trascura di illuminarci su come si percepisce, più ambifilico, cisgender o cheesburger. Ne deriva una allucinante escursione nella fuffa, noi almeno la cogliamo come tale, può darsi che i lettori di Repubblica, avvezzi alle baggianate incomprensibili di Chiara Valerio e socie, si orientino meglio, ma, ecco, li sfideremmo a cogliere qualche senso, qualche succo da passaggi del genere: “L’esperienza di un’identità fluida e non binaria è quella di chi si trova più a suo agio muovendosi su un personale gradiente di genere dove può cogliere al meglio la propria soggettività”.

Viene subito in mente Paolo Panelli, “il bricolage… è il bricolage”; meglio ancora Giovannone, il “sotto’o’o del conte Mascetti: ‘Un ho capito un cazzo!’”, arrotando i coltelli. Ed è proprio il caso. Ci sono delle classificazioni più astruse delle categorie musicali che i critici alternativi si inventano per darsi un tono: “Demigender, identità di genere che si riconosce solo in parte in una identità di genere tradizionale a prescindere dal sesso assegnato alla nascita”. Poi ci sarebbe anche “Agender”, che è un ulteriore passo avanti ma nessuno sa verso dove. E infinite altre sottocategorie sulle quali il tacere è bello infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso. Se si pensa che per “asessuale” si intende uno che “non prova attrazione sessuale verso gli altri. Questo non vuol dire che non possano instaurare relazioni affettive o romantiche né la totale assenza di libido”. Insomma trombano o no questi asessuali? Trombano ma distrattamente? Appena appena?

Ma la trovata forse più forse più fantastica anzi fantasmagorica sono le bandiere, una per ogni (a)gender: il colpo d’occhio è stupendo, sembra le Olimpiadi o gli Europei di pallone coi calciatori tutti Mahmood. Nell’ampia, fin troppo, disamina sulla fuffa per cui uno non è quello che è ma quello che pretende di essere, però non troppo, non sempre, si insiste sul concetto di polisessualità, per dire andare con chi vi pare, ma è minestra riscaldata, il vecchio Ivan Cattaneo ci aveva fatto un brano “Polisex” a inizio anni Ottanta: la problematica rincula ai tempi dell’edonismo reganiano e craxiano, dai Culture Club a Dallas a Uccelli di rovo. “Il solo fatto di essere gay o lesbica – continua Lingiardi – può implicare il vivere e l’esprimere i concetti di “mascolinità” e “femminilità” in modo diverso da ciò che le norme e le tradizioni culturali hanno insegnato”.

Nel senso anafestico, ovvio, ma perché sempre quelle virgolette “tanto per”, estetiche, forse per non farsi capire, per non compromettersi? Anche dire gay e lesbica è troppo definitivo, troppo identificativo? “Espressioni quali “identità multiple”, “generi fluidi” e “sé discontinui” – sottolinea Lingiardi – fanno a volte riferimento a concetti che, per non rimanere accademici, devono fare i conti con la realtà dell’esperienza e le risorse psicologiche disponibili”, e qui siamo al culmine dell’antilogica, al parlare per non farsi accuratamente capire. Chiede la curatrice allo psicoterapeuta, in una domanda che qualsiasi manuale di giornalismo elementare sconsiglierebbe perché prolissa quanto a sua volta incomprensibile: “Pensare che la varietà di identità e di orientamenti sia cosa di oggi è di certo miope, potrebbe essere utile invece chiedersi perché proprio negli ultimi decenni l’esistenza e quindi la rappresentazione delle diversità sia diventata un tema centrale non solo nel dibattito pubblico, ma anche in quello linguistico. Rappresentare anche attraverso le parole è diventata una priorità di larga scala, ‘comune’, non più argomento di dibattito di circoli ristretti e di settore. La domanda, quindi, è: perché adesso?”.

La risposta del Lingiardi è per una volta di esemplare disarmante cristallinità: “Per ora è molto difficile dare una risposta basata su risultati empirici”. Come a dire: stiamo improvvisando, non abbiamo idea di cosa diciamo ma lo diciamo, d’acordooo? Arrivare in fondo a un simile sfoggio di aria scritta è come varcare le Alpi con gli elefanti, è una Anabasi sfiancante che però non trova quale orizzonte nessun trono, né di Persia, né di Spade, né di identità erotico-sessuale. Un giro dell’oca, e oca chi legge, in senso agenderizzato, s’intende. Forse Repubblica, lungi dal reiterare l’antica tradizione di sinistra di esprimersi in modo astruso per sentirsi più intelligente, in fondo altro non fa se non riflettere la confusione somma della sinistra, quell’aver rinunciato a raccapezzarsi nel suo caos postideologico, nel deserto di valori, di significati, di prospettive.

Forse il mondo monodimensionato, a misura del denaro per cui non si sta più a distinguere se onesto o criminale ma quanto consistente; di un artista, uno scrittore non si valuta più il talento, la proposta artistica ma si dice solo quanti soldi valga o abbia già fatto, forse questo mondo imploso per cui la sinistra si riconosce in una ereditiera pronta a sorreggere una Baronessa traballante, a fare eleggere teppistoidi facoltose e irrisolte, questo mondo che ha sconfessato ogni aspettativa marxista, rivoluzionaria, non meno che riformista, ha svuotato la sinistra, l’ha cambiata dentro e da dentro, e la ostentata confusione, la balcanizzazione del sesso, dei sessi, è mera proiezione, resa ideologica spalmata sulle genti. Con il che la questione da psicanalitica si declina in sociologica.

Sconfitta nella sconfitta, oltretutto, perché nella pur pessima pubblicistica del dopoguerra di Einaudi e Feltrinelli, nel trontismo, neomaoismo o rivoluzionarismo esotico, assurdità sessuali di questo tipo non avrebbero trovato posto, sarebbero state maledette in fama di deviazionismo borghese. Ma i tempi sono cambiati, anche se non si riescono più ad afferrare, sono liquidi, sono fumosi, va tutto bene ma almeno si facessero capire, almeno rendessero manifesto una buona volta il loro disorientamento, lo sbando che li avvolge: così sembra di retrocedere ai non tanto gloriosi sperimentalismi del Gruppo ‘63, che si vantava di riuscire assolutamente incomprensibile, e il vecchio Moravia li inchiodava: ma se non vi fate capire, come potete prendere di essere democratici?

Max Del Papa, 14 giugno 2024

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