Quella economica e produttiva è una macchina affascinante, fatta di milioni di pezzi che, magicamente ed in modo apparentemente invisibile, si mettono d’accordo. Non esiste un direttore d’orchestra e coloro che hanno provato a regolare l’economia pianificandola hanno miseramente fallito. Se qualche mese fa vi foste recati a Milano o a Roma, avreste trovato mille luci accese, mille ristoranti e bar aperti: non c’è nessuno che ne abbia stabilito il numero. È il mercato, cioè la domanda, che ne ha fissato il numero. Non tutti ce la fanno, ma molti sì. Non c’è un decreto che stabilisca la frequenza dei bar o dei ristoranti a Roma: sono i consumatori che ogni giorno la decidono. E, dall’altra parte, gli esercenti cercano di stimolare la domanda, combattono per renderla sempre più preziosa.
Quando però un decreto decide di chiudere pressoché tutto, sono guai. Un pasto non consumato, un taxi non preso, un autista non ingaggiato, un caffè non acquistato, non si recuperano, sono persi. Questa cosa milioni di artigiani, commercianti, autonomi la stanno sperimentando sulla propria pelle. Sono a fatturato zero e sanno bene che, quando si riaprirà, ciò che hanno perso non potranno riprenderselo. Sempre che possano riaprire. L’emergenza economica rischia di essere drammatica. Per le imprese più strutturate la musica cambia di poco. Con un’aggravante. Il caso tipico, ovviamente non l’unico, è stato denunciato dall’amministratore delegato dell’acciaieria di Terni: mentre noi stiamo fermi, i nostri concorrenti europei ci stanno rubando ordini e commesse. Nel settore dell’automotive, la chiusura degli impianti italiani è in parte sostituita da fornitori e terzisti polacchi. Potremmo continuare all’infinito. Anche per i piccoli esiste una concorrenza, che si può definire esterna, ed è quella dei grandi magazzini on line che stanno conquistando ampie fette di mercato.
Riguardo all’industria, il motore del PiI italiano, basti pensare che il consumo di energia elettrica è crollato in Italia del 20 per cento. Nonostante i consumi domestici siano decisamente aumentati. È l’industria che è spenta. Il 90 per cento della meccanica. Gran parte del cuore industriale del nord è paralizzato. Nel resto d’Europa, il consumo di energia elettrica è sceso meno che da noi.
In questo scenario il governo ha messo in atto due atti importanti. Ha stanziato per circa cinque milioni di autonomi 600 euro per il mese di marzo. E ha allargato praticamente a tutti la cassa integrazione che permette alle aziende di non pagare i propri dipendenti per le prossime nove settimane. La direzione è giusta. Ma nei dettagli si annida la tragedia. Siccome si parla comunque di risorse ridotte, esse debbono almeno essere semplici da ottenere e arrivare subito. Entrambe queste due caratteristiche sono state disattese. È come annunciare un pronto soccorso, ma vederlo realizzato dopo un mese: nel frattempo i pazienti muoiono. Così come alle imprese serve liquidità immediata (che non hanno ancora avuto) per sopravvivere, così ai cittadini servono risorse immediate per tirare avanti.
Alzi la mano un cassaintegrato che oggi abbia ricevuto l’80 per cento del suo stipendio. Alzi la mano un autonomo che abbia ricevuto sul suo conto i 600 euro. Nessuno potrà farlo; probabilmente, se va loro bene, dovranno aspettare ancora un mese. Ma, una volta tamponata la ferita (Cig, 600 euro e liquidità per le imprese), occorre riprendere a correre. Nessuno può immaginare sostegni pubblici per mesi. Un solo mese di cassa integrazione costa 13 miliardi e non copre il 100 per cento della retribuzione dei propri dipendenti. I promessi 600 euro, poco più di una mancetta e meno di un reddito di cittadinanza, costano alle casse pubbliche, in un solo mese, 3,5 miliardi. Bisogna riaccendere l’economia. Il prima possibile.