Il nuovo libro di Giuseppe Bedeschi, I maestri del liberalismo nell’Italia Repubblicana (Rubbettino) è da mettere a pieno titolo nella nostra personalissima biblioteca liberale.
Uscito quasi in contemporanea con le zuccherose celebrazioni della nascita del Partito comunista, ci spiega, nel suo primo capitolo, perché la cultura marxista italiana è stata viziata sin dalle origini da un drammatico errore storiografico. La scrivo male, rispetto a quanto riesce a fare Bedeschi, ma il nocciolo della questione risiede in fondo nell’egemonia gramsciana. Togliatti, sulla scia di Gramsci, ha convinto una generazione di intellettuali, e ciò che più conta l’opinione dell’establishment, che il fascismo, il grande orrore della storia italiana, sia la semplice e banale conseguenza del cattivo Risorgimento.
Anche noi, ben meno intellettuali, riusciamo così a mettere insieme i puntini. Il Risorgimento non è fatto da eroi, ma da reazionari, il capitale agrario ha vinto, e il fascismo ne è la logica conseguenza: ecco il mantra del Pci. La rivoluzione del Duce non poteva essere considerata dunque un’«escrescenza della nostra storia nazionale» come ha provato a sostenere Benedetto Croce, il Risorgimento non poteva che essere così, come ha stabilito il grande Chabod, e le sue conseguenze economiche sono state fruttuose, come ha dimostrato Romeo; eppure per l’egemonia culturale comunista questo non era accettabile.
Bedeschi per questa strada fa una rapida carrellata di grandi liberali da Einaudi a Salvemini, da Croce a Bobbio. E lo fa magnificamente, portandoci per mano nei meandri di un metodo di pensiero difficilmente dogmatizzabile. Per questo motivo Einaudi può convivere con Bobbio: liberale o azionista? Chi scrive protende per la seconda ipotesi. Ma chi scrive d’altronde avrebbe gradito che tra i maestri del liberalismo nell’Italia repubblicana non fosse dimenticata la scuola della Luiss (quella vera, non quella alla ricerca di consulenza di medio livello rappresentata oggi).