Boccia e l’autonomia che non si farà mai

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Francesco Boccia è impegnato nella soluzione di un rebus impossibile: concretizzare l’autonomia differenziata mettendo insieme l’eguaglianza dei servizi essenziali e la diversità dei governi locali che, alla fine dei conti, hanno il compito di realizzarla. Si tratta di un autentico rompicapo per il quale, per ora, nessuno sembra avere – per adottare un’espressione di Umberto Bossi diventata per il troppo uso, ormai, consunta – la quadra. La novità del ministro degli Affari regionali è più di metodo che di merito ed è stata ben riassunta da Vincenzo De Luca: “Non si ragiona partendo dalla spesa storica, ma dalla cornice unitaria”.

Tuttavia, cambiando l’ordine dei fattori non sembra che muti il risultato perché alla fine è necessario acconciarsi ad affrontare il merito della questione: come garantire i livelli essenziali delle prestazioni – Lep – se a realizzarli sono soggetti diversi? Insomma, per usare le vecchie e care parole della “questione meridionale”: come rendere uguali Nord e Sud se Nord e Sud sono diversi?

Francesco Boccia, pugliese, originario di Bisceglie, è una vita che fa il mediano e studia da ministro. Con il governo Conte 2 ha in parte realizzato il sogno e in parte ancora lo sta accarezzando. Il suo incarico di ministro per gli Affari regionali sembra quasi quello di commissario ad acta. Il compito specifico che gli è stato affidato è quello dell’artificiere: disinnescare la “bomba ad orologeria” dell’autonomia differenziata o regionale che gli stessi governi di centro-sinistra hanno innescato inserendo in Costituzione la possibile riforma. È come se il mandato di Boccia si dividesse in una pars destruens e in una pars costruens. Con la prima si demoliscono gli accordi precedenti tra governo e regioni, mentre con la seconda si ritorna alla casella iniziale e, quindi, si ripresenta puntuale la quadratura del cerchio che non c’è: creare l’autonomia senza le differenze sui servizi base.

Al momento Boccia, che nello stesso nome ha un destino, è riuscito nella prima e più facile parte: ha fatto il giro delle sette chiese regionali e ha interrotto il percorso di riforma che con Erika Stefani, ministro leghista, era ormai giunto alla stazione finale. Da questo momento inizia la seconda parte che è quella, per dirla con un fiorentino più famoso di Renzi, su cui “si parrà la tua nobilitate”. L’ingegno del ministro, nonché le sue stesse forze politiche, rischia di essere messo a dura prova perché il problema, se è considerato tale, non solo è di difficile soluzione ma sembra anche che sia senza soluzione. In pratica, il ministro del Pd vuole sì l’autonomia differenziata, ma con una differenza decisiva: che inizi là dove è garantita l’identica qualità dei servizi nelle diverse regioni.

Ma il dente che duole è proprio qui: chi e come assicura queste identiche prestazioni da Nord a Sud? Quelle stesse classi dirigenti locali che finora hanno garantito proprio l’esatto contrario: le differenti qualità delle prestazioni di base. Come si vede, è il classico cane che si morde la coda, un circolo vizioso nel quale il ministro dovrebbe svolgere il ruolo del barone di Munchhausen che si tirò fuori dalle sabbie mobili tirandosi il codino dei capelli.

Giancristiano Desiderio, 10 ottobre 2019

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