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Bohemian Rhapsody: 30 anni senza Freddie Mercury (e ora ci toccano i Maneskin) - Seconda parte

“Noi” dice Freddie “vogliamo un suono fatto di strati, io voglio costruire tessiture dietro le linee melodiche portanti”. È così che nasce Bohemian Rapsody, la “non-opera” come la chiama Mercury, con le 180 sovraincisioni di voci e le settimane in studio solo per questo brano in cui si travolgono le possibilità dell’epoca nel forzare cantato e impasto sonico. Una rapsodia, una composizione in un solo movimento ad andamento libero, dove sfilano ballata pianistica, recitativo da opera comica, teatralità corale, strappo hard rock, ricucitura di chitarra onirica, a chiudere sulla malinconia solenne da ballata. È glam? È opera? È progressive? È hard? Impossibile stabilirlo, è tutto e niente, tutto e il suo contrario, mentre quello che appare chiaro sono le possibilità sovrumane del cantante che in gola ha già, naturali, gli strumenti truffaldini che oggi servono a surrogare corde vocali inesistenti: l’autotune, il melodyne. E questa è arte: supremo riciclo di secoli precedenti, frullatore di cose antiche che originano fantasmi inediti, coraggio dell’ambizione sfrenata e quindi premiata.

Freddie è un eunuco del ‘900, un castrato che non è stato castrato: il suo canto operistico smette i lunghi capelli e lo smalto nero, i bracciali a serpente, gli zatteroni, si fa crescere un taglio da ragioniere e dei baffetti che sono l’imperativo dell’estetica gay degli anni ’80; ma i suoi Queen sono, restano in fama di gruppo disimpegnato, addirittura conservatore e in questo caso il pregiudizio nasconde la verità: non tanto per l’assoluta refrattarietà a coprire di significati, anche di rottura, l’estetica musicale propria di un David Bowie, per quel lasciare le canzoni alle canzoni, quanto perché il rock e il pop tronfio, barocco, maniacalmente elaborato, che i critici sprezzanti chiamano “pomp rock” si ispira senza riserve ad una idea imperiale della musica, è una elegia per il Regno adottivo.

Figlio dell’Impero

Il figlio della provincia dell’Impero, cresciuto in un Protettorato, si identifica con l’Impero, con la Regina, con le pompe del cerimoniale, è un migrante che non vuole integrarsi, che come al solito va molto oltre, vuole essere più inglese di un inglese puro, di un inglese imperiale: i sottogeneri praticati nell’arte, dal vaudeville al glam, al rock, al music hall alla pseudo opera lirica, gli servono per plasmare una proposta a sua dimensione – anche se i compagni hanno tutti, come lui, alle spalle famiglie borghesi classiche e ottimi studi che nell’età della pensione li porteranno a cattedre e dottorati; una dimensione dove la musica rifluisce in una certa idea della Gran Bretagna: di una matrice necessariamente popolare, ma che a forza di sofisticazioni, di ossessioni strutturali, di meticolosità certosina si rivolta, rifiuta l’essenzialità del rock e i suoi derivati.

C’è un aneddoto che dice tutto quando, nel ’77 del punk, i Queen provocano apertamente i nuovi antieroi con due brani: Sheer Heart Attack e Fight from the Inside, entrambe scritte da Roger Taylor: siete stupidi, siete limitati, recitate solamente la rivoluzione sonora, perché non potete fare altro. E quando Mercury si ritrova faccia a faccia con Sid Vicious, che lo apostrofa, “E così tu saresti quel Freddie Platinum che dovrebbe avvicinare il balletto alle masse?”, la risposta è caustica da perfetto snob britannico: “Ah, Mr. Ferocious, facciamo del nostro meglio, caro. Facciamo del nostro meglio”. Mr. Ferocius era il nomignolo con cui tutti sfottevano Sid, il violento patetico.

I mille volti di Freddie Mercury

Chi era Freddie Mercury? Il cantante, l’artista sfrontato, eccessivo, anima di attacchi roboanti come Killer Queen, di inni marziali in sospetto di parata quali We Will Rock You, la mente mercuriale che coi manager discettava di “nuovi territori da conquistare” e aveva programmato l’ascesa e il trionfo dei suoi Queen con dieci anni di anticipo, con una meticolosità mercantile e di comunicazione degna di un amministratore delegato? O l’eroe disilluso, disperato che con l’amica Lesley-Ann Jones ammette il proprio fallimento di uomo solo, divorato dal successo, che la supplica: quando muoio, buttami nel lago? Era l’istrione volgare, bulimico, polimorfo perverso, aggressivo, o il morente che accetta un ultimo video, Show must go on, che è già un piccolo straziante film su di lui, sulle sue prodezze già consegnate al ricordo? È l’uomo che vestito da donna passa l’aspirapolvere o la maschera scavata che svanisce nell’addio di uno sguardo malinconico e pacificato, è andata così, addio amici, io vado?

Max Del Papa, 24 novembre 2021

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