“Muore giovane chi è caro agli dèi” è la più grande fra le poetiche bugie: nel rock chi muore giovane muore male e lascia scie di questioni irrisolte. Chi era Freddie Mercury, mancato 30 anni fa, non lo si è ancora capito. Forse perché l’esistenza di una rockstar, per quanto breve, non ci può stare in una vita. Una matrioska di contraddizioni l’una dentro l’altra fino a quando non scompare di Aids, la pandemia dell’epoca, ammettendo pubblicamente solo in punto di morte di essere gay? Perché è questo il punto, Mercury, del tutto spregiudicato, famelico di giovani maschi, non ha mai sposato la causa che allora non si chiamava ancora lgbt ma c’era eccome, così come c’era il “fluid”, termini nuovi o tolti dalla naftalina per definire attitudini e pratiche vecchie come l’uomo.
Ma Freddie era oltre e non si preoccupava di autodefinirsi più che di lasciarsi definire. Come a dire: pensate quel che volete, la verità la so io, la mia verità sono io. Un individualista spietato, anche con sé stesso, un figlio del Novecento, un “gay narciso”, in parole sue, ma consapevole che definirsi è limitarsi: i compagni maschi li tiene fuori dall’alone della luce pubblica e invece contempla, e lascia che si sappia, l’unico matrimonio possibile con Mary Austin. Sei anni d’amore feroce, di tradimenti senza nessun limite, in un vincolo inscindibile, come un groviglio di spine. Ma c’era anche il legame morboso, viscerale con l’altra femmina, Lesley Ann-Jones, che poi diverrà sua biografa.
I “Mercury” italiani
Anche in Italia ci sono state personalità simili, e anche queste hanno sempre rifiutato di farsi “chiudere in un barattolo”, per dirla con Renato Zero: proprio lui, che si travestiva e lacerava i generi ancor prima dei Mercury, dei Bowie, che intrecciava storie d’amore eterne e impossibili con Lucy Morante, con Enrica Bonaccorti, alternate a compagni di vita più o meno passeggeri. O Lucio Dalla, del quale nessuno a Bologna si poneva “il problema”, sapevano che poteva amare indifferentemente, che il legame con Angela Baraldi poteva venir messo in discussione, come accadde, in qualsiasi momento e per qualsiasi incontro. Anche loro, Zero, Dalla, hanno sempre rifiutato di lasciarsi catalogare e, attenzione, non per viltà o calcolo, ma semplicemente perché non si riconoscevano in nessuna dimensione ed erano allergici alle militanze. Ci sono interviste illuminanti di entrambi, al riguardo, nell’arco di 40 anni. Ma come fai a discutere di glam con un qualsiasi politico italiano che si preoccupa o si congratula per le mascherate dei Maneskin?
Mercurio, dio dei ladri e dei truffatori
Ha aperto strade, come si dice, Mercury? Non diremmo, se mai ha tracciato una sua personale strada per la quale l’elemento kitsch, quello camp, non sono secondari, viceversa fondativi nei Queen fin dal nome, allusivo ma esplicito, preteso da Mercury, imposto ai compagni. Omosessuale “coperto”, non riconosciuto, ma ambiguo ma solo nel difendere il segreto di Pulcinella, in effetti androgino più e prima di Bowie, ispirato all’Ottocento peccaminoso ed estetizzante di Aubrey Beardsley, di Oscar Wilde. Freddie Mercury, da Mercurio, il dio dei ladri e dei truffatori, dei bugiardi, dei doppi, dei puttaneschi, nato Farrokh Bulsara nel 1946, figlio di genitori parsi al largo della costa orientale africana quando Zanzibar era ancora protettorato britannico. C’è, in pillole, un sunto della cultura alta e bassa novecentesca, fatto di richiami, allusioni, brezze intellettuali, però inequivocabili.
Oggi i Maneskin…
Oggi gli epigoni sono mesti, piatti, il ragazzo Damiano coi suoi Maneskin, come l’Achille Lauro, sono costruzioni del business senza fondamenti, guidati dagli esperti di look (Zero: “Mi immaginavo i vestiti da solo, li ricavavo da scampoli dei tendaggi, i soldi non c’erano mai”), dalle griffe della moda; ma esperti con poca fantasia, se è vero che riciclano tutto: Lauro ha letteralmente saccheggiato il guardaroba di Zero, i Maneskin addirittura frugano negli armadi dei Cugini di Campagna. E le loro espressioni vuote, al limite del beota, non possono manifestare alcun carisma: niente che sia destinato a durare, niente di problematico, solo posa, solo la grande rapina al tremo dell’altrui creatività, al coraggio degli altri, alla musica già scritta.
Rapsodia
Freddie è anomalo genetico, è il ragazzo “con più incisivi in bocca del normale”, da cui la maschera di un sorriso sfrontato e un po’ mannaro, che già a scuola chiama “tesoro” gli insegnanti ma appartiene a una famiglia altoborghese con tanto di servitù, che lo manda in un collegio anglicano in India quando compie 8 anni; in seguito, con i genitori emigrato alla rovescia a Feltham, un sobborgo di Londra, dopo la fine del dominio coloniale britannico su Zanzibar, continua la sua formazione rigorosamente inglese, scuole d’arte, di grafica, da cui assorbe un senso della cultura tutto europeo: l’arte, la moda, l’opera lirica che poi immetterà nella musica pop rock. Un apprendistato duro, anche snob, che però serve: i Queen, il suo gruppo, partono molto tirati, dall’hard rock di fine anni Sessanta, da suggestioni obbligate, la furia del filone Yardbirds-Cream-Jeff Beck-Jimmy Page, la fascinazione da Jimi Hendrix, inevitabile in un chitarrista come Brian May, tecnicamente tra i più sofisticati del Novecento rock, apprezzato da Frank Zappa; ma la visceralità dell’hard rock primordiale non gli basta, sono attratti – nuova contraddizione, nuova doppiezza – dallo sperimentalismo e dalle produzioni avveniristiche in studio proprio di Zappa, dei Beatles con George Martin, dal suono gonfiato che poi sarà degli ELO.
“Noi” dice Freddie “vogliamo un suono fatto di strati, io voglio costruire tessiture dietro le linee melodiche portanti”. È così che nasce Bohemian Rapsody, la “non-opera” come la chiama Mercury, con le 180 sovraincisioni di voci e le settimane in studio solo per questo brano in cui si travolgono le possibilità dell’epoca nel forzare cantato e impasto sonico. Una rapsodia, una composizione in un solo movimento ad andamento libero, dove sfilano ballata pianistica, recitativo da opera comica, teatralità corale, strappo hard rock, ricucitura di chitarra onirica, a chiudere sulla malinconia solenne da ballata. È glam? È opera? È progressive? È hard? Impossibile stabilirlo, è tutto e niente, tutto e il suo contrario, mentre quello che appare chiaro sono le possibilità sovrumane del cantante che in gola ha già, naturali, gli strumenti truffaldini che oggi servono a surrogare corde vocali inesistenti: l’autotune, il melodyne. E questa è arte: supremo riciclo di secoli precedenti, frullatore di cose antiche che originano fantasmi inediti, coraggio dell’ambizione sfrenata e quindi premiata.
Freddie è un eunuco del ‘900, un castrato che non è stato castrato: il suo canto operistico smette i lunghi capelli e lo smalto nero, i bracciali a serpente, gli zatteroni, si fa crescere un taglio da ragioniere e dei baffetti che sono l’imperativo dell’estetica gay degli anni ’80; ma i suoi Queen sono, restano in fama di gruppo disimpegnato, addirittura conservatore e in questo caso il pregiudizio nasconde la verità: non tanto per l’assoluta refrattarietà a coprire di significati, anche di rottura, l’estetica musicale propria di un David Bowie, per quel lasciare le canzoni alle canzoni, quanto perché il rock e il pop tronfio, barocco, maniacalmente elaborato, che i critici sprezzanti chiamano “pomp rock” si ispira senza riserve ad una idea imperiale della musica, è una elegia per il Regno adottivo.
Figlio dell’Impero
Il figlio della provincia dell’Impero, cresciuto in un Protettorato, si identifica con l’Impero, con la Regina, con le pompe del cerimoniale, è un migrante che non vuole integrarsi, che come al solito va molto oltre, vuole essere più inglese di un inglese puro, di un inglese imperiale: i sottogeneri praticati nell’arte, dal vaudeville al glam, al rock, al music hall alla pseudo opera lirica, gli servono per plasmare una proposta a sua dimensione – anche se i compagni hanno tutti, come lui, alle spalle famiglie borghesi classiche e ottimi studi che nell’età della pensione li porteranno a cattedre e dottorati; una dimensione dove la musica rifluisce in una certa idea della Gran Bretagna: di una matrice necessariamente popolare, ma che a forza di sofisticazioni, di ossessioni strutturali, di meticolosità certosina si rivolta, rifiuta l’essenzialità del rock e i suoi derivati.
C’è un aneddoto che dice tutto quando, nel ’77 del punk, i Queen provocano apertamente i nuovi antieroi con due brani: Sheer Heart Attack e Fight from the Inside, entrambe scritte da Roger Taylor: siete stupidi, siete limitati, recitate solamente la rivoluzione sonora, perché non potete fare altro. E quando Mercury si ritrova faccia a faccia con Sid Vicious, che lo apostrofa, “E così tu saresti quel Freddie Platinum che dovrebbe avvicinare il balletto alle masse?”, la risposta è caustica da perfetto snob britannico: “Ah, Mr. Ferocious, facciamo del nostro meglio, caro. Facciamo del nostro meglio”. Mr. Ferocius era il nomignolo con cui tutti sfottevano Sid, il violento patetico.
I mille volti di Freddie Mercury
Chi era Freddie Mercury? Il cantante, l’artista sfrontato, eccessivo, anima di attacchi roboanti come Killer Queen, di inni marziali in sospetto di parata quali We Will Rock You, la mente mercuriale che coi manager discettava di “nuovi territori da conquistare” e aveva programmato l’ascesa e il trionfo dei suoi Queen con dieci anni di anticipo, con una meticolosità mercantile e di comunicazione degna di un amministratore delegato? O l’eroe disilluso, disperato che con l’amica Lesley-Ann Jones ammette il proprio fallimento di uomo solo, divorato dal successo, che la supplica: quando muoio, buttami nel lago? Era l’istrione volgare, bulimico, polimorfo perverso, aggressivo, o il morente che accetta un ultimo video, Show must go on, che è già un piccolo straziante film su di lui, sulle sue prodezze già consegnate al ricordo? È l’uomo che vestito da donna passa l’aspirapolvere o la maschera scavata che svanisce nell’addio di uno sguardo malinconico e pacificato, è andata così, addio amici, io vado?
Max Del Papa, 24 novembre 2021