“Lo dico da presidente della Conferenza delle Regioni”, così esordisce Stefano Bonaccini, confermato da qualche mese “governatore” dell’Emilia Romagna, giusto prima che l’Italia, con la sua regione in prima fila, andasse in quarantena. E francamente sembra una excusatio non petita, la quale, come sapevano gli antichi, cela sempre una “colpa manifesta”. La “colpa” di Bonaccini è, in un momento difficile, di creare ulteriore difficoltà al governo nazionale, di cui il suo partito è socio nella maggioranza che lo sorregge e che si formò nell’agosto scorso dopo che Nicola Zingaretti, in men che non si dica, sconfessando ogni precedente intento, si alleò con il Movimento Cinque Stelle.
E la generata difficoltà è nella sostanza, oltre che nel tono perentorio, di quel che Bonaccini dice: “bisogna che arriviamo a un accordo perché o il governo stanzia altri due miliardi di euro per le regioni a statuto ordinario o altrimenti noi interrompiamo le relazioni istituzionali”. Detto francamente, sembra che il corpulento governatore di quella che fu un tempo una solida roccaforte comunista abbia finalmente deciso di venire allo scoperto e proporsi come il leader alternativo alla gestione zingarettiana, la quale, in sostanza, succuba come è dei grillini e del premier, sembra assolutamente non reagire al cul de sac, ovvero all’assoluto immobilismo, in cui, per impraticabilità politica e non solo economica, l’esecutivo sembra essersi definitivamente cacciato.
Bonaccini parla ovviamente forte della sua vittoria sul centrodestra a trazione salviniana, che ha interrotto quella che fino ad allora, cioè al gennaio scorso, sembrava l’irresistibile marcia del Capitano da una vittoria elettorale all’altra in vista della “spallata” finale. Una vittoria per nulla scontata la sua, visto che ormai anche le “regioni rosse” non votano più per appartenenza ideologica forte e considerato anche che Salvini, con una campagna elettorale porta a porta, aveva fatto di quella emiliano-romagnola non una battaglia locale, seppure importante, ma l’atto finale di una guerra al “governo illegittimo” insediatosi a Roma.
La versione di comodo che si è data a quella vittoria in fondo inaspettata per la stessa sinistra, e che Zingaretti ha avuto tutto l’interesse ad avvalorare, è che vitale e decisiva era stata l’iniezione del giovanile vitalismo sardinesco che aveva ridato un tono ad un popolo orfano della piazza e del democratico partecipazionismo dei tempi che furono. Quasi dimenticando che chi ha votato Bonaccini, cioè il popolo emiliano-romagnolo, è quanto di più lontano possa immaginarsi dal vuoto e culturalmente inconsistente fighettismo urbano e radical chic messo in scena alla perfezione da Mattia Santori & Co. E in effetti la vittoria dell’emergente politico modenese è fortemente legata a quel territorio e a quel blocco di interessi forti e clientelari che unisce, in un sistema consociativo welfaristicamente funzionante, il mondo industriale, quello sindacale e cooperativo, quello del (più o meno falso) volontariato e persino il mondo cattolico (che ha qui una forte impronta sociale e dossettiana).
Una vera e propria piovra da una parte, ma anche il sistema ove finisce per avere la meglio alla fine una mentalità pragmatica volta alla risoluzione dei problemi concreti senza troppi sovrappesi ideologici. Da qui un mondo anche simbolico, oltre che culturale, completamente diverso da quello romanocentrico incarnato da Zingaretti: Bonaccini ha tenuto lontano dalla campagna elettorale i big del partito e non ha affrontato Salvini, che ha indubbiamente sottovalutato l’uomo e il campo di gioco, con le parole d’ordine dell’antifascismo, dell’antirazzismo e, quindi, anche della gestione allegra dell’immigrazione clandestina (che egli, proprio per non aver perso contatti con la sua gente, sa che è un problema serio, anche e soprattutto di sicurezza, nelle periferie delle tante cittadine che compongono l’artistico mosaico della sua regione).
A livello d’immagine non può esserci nulla di più lontano dai giochi di palazzo romani, dai mai intermessi posizionamenti e riposizionamenti delle forze politiche e dei tanti aspiranti leaderini che riempiono la scena capitolina, dalla partita giocata su uno scacchiere che ha al suo centro non i problemi effettivi del Paese ma la prossima elezione dell’inquilino del Quirinale. Da liberali, il modello Bonaccini, paternalistico e collettivistico, non può piacerci. Ma ammettiamo che se nel Partito democratico vincessero le tendenze che egli rappresenta, ci troveremmo di fronte a un avversario duro e coriaceo. Il che forse imporrebbe anche a noi di centrodestra di risolvere una volta per tutte certe permanenti incongruenze presenti nel nostro campo e che rischiano di tenerci per lungo tempo lontani dai banchi del governo.
Corrado Ocone, 25 giugno 2020