Certo, il ministro Alfonso Bonafede deve avere un alto concetto di sé per definire “epocale” gli atti del governo promossi dal suo dicastero: prima la riforma del processo penale, ora il decreto che prevede il carcere per i grandi evasori. E come non bastasse, a proposito di quest’ultimo, parla pure di “svolta culturale”. A naso, Bonafede non mastica molta filosofia, se no avrebbe rispolverato Gaston Bachelard parlando di “frattura epistemologica”, da datare ovviamente col suo avvento, ormai un anno e mezzo fa, al Ministero di via Arenula.
In verità, la svolta culturale sui temi della giustizia c’è stata, ma data ormai da almeno un quarto di secolo, da quando il ministro portava ancora i calzoni corti e giocava a pallone nella sua Mazara del Vallo. Fu nei primi anni Novanta, infatti, che ci trasformammo dalla patria di Cesare Beccaria e della civiltà del diritto, con le sue garanzie e le sue forme, in quella dei processi di piazza e delle accuse non provate. In questo senso, Bonafede è un epifenomeno, il punto di arrivo di un processo di decadenza dell’anima e del pensiero degli italiani.
La prima, dimentica di ogni pietas, in preda a un risentimento e a un’invidia sociale mal riposta e senza fondamento; il secondo, sempre più succubo del semplicismo e di una concezione manichea della vita e del mondo che non regge alla prova dei fatti. Applicato poi alle tasse, il giustizialismo è particolarmente odioso: sia perché a volte l’evasore lo è per necessità, sia perché lo stato soprattutto dalle nostre parti non restituisce ciò che prende né in termini di servizi né di sicurezza sociale.
L’unica speranza che, proprio come epifenomeno, il giustizialismo sia all’atto finale e che Bonafede sia come uno di quegli attori che ricompaiono sul palco dopo che il sipario si è già chiuso una prima volta per mostrarsi e ringraziare.