Matteo Renzi si conferma il biscazziere della politica con la disinvoltura del bluff, annunciando combinazioni parlamentari vincenti con lo scopo di indurre il bersaglio (il governo) al tavolo da gioco per negoziare visibilità e passare all’incasso. Sul ministro della Giustizia Alfonso Bonafede incombeva la mozione di sfiducia su cui inizialmente il leader di Italia Viva aveva lasciato intendere la disponibilità a valutarne le ragioni tanto da dichiarare:«Mozione di sfiducia a Bonafede? Valuteremo, il problema è la sua linea».
Finora la linea del Guardasigilli è stata disastrosa avendo inanellato una serie di fallimenti: la mancata riforma del processo penale e del sistema di elezione del Csm annunciate con enfasi sin dall’esordio al dicastero di via Arenula, che ha avuto come inquilini Aldo Moro, Giuliano Vassalli, Giovanni Maria Flick ed altri autorevoli predecessori del Dj Fofò, l’abolizione della prescrizione, la gestione caotica dei penitenziari durante l’emergenza sanitaria con la scarcerazione dei boss mafiosi e il frontale polemico con il magistrato antimafia Di Matteo che lo ha accusato di non averlo nominato a Capo del Dap, alludendo a pressioni mafiose. Tutti elementi che depongono a favore del congedo di un ministro inadeguato ad amministrare la macchina complessa della giustizia.
Un Guardasigilli che omette di assumersi la responsabilità per le disfunzioni di settori, come quello delle carceri, che dipendono da funzioni subordinate al ministero di cui è titolare non può continuare a rivestire ruoli di governo che esigono il vincolo costante alla responsabilità. Il ministro della Giustizia Bonafede durante una trasmissione televisiva dichiarò con ignorante e depensante convinzione che «gli innocenti non finiscono in carcere». La castroneria del ministro, dettata dalla dottrina giustizialista di cui è un discepolo devoto, venne censurata dai dati che illustrano i migliaia di risarcimenti riconosciuti alle vittime di detenzioni ingiuste. Dunque, anche gli innocenti finiscono in carcere ma il ministro della Giustizia non lo sapeva e forse, tuttora, ne è ignaro.
Sempre Bonafede è stato fautore di un principio abominevole per cui se «c’è un sospetto, anche chi è pulito, deve dimettersi», ma diventando lui il sospettato si è sottratto ai postulati del dogma giustizialista. I soliti manettari con i polsi altrui. Alla vigilia del dibattito parlamentare sulla mozione di sfiducia la ministra renziana Teresa Bellanova, dopo aver inumidito con le lacrime dell’ex bracciante il decreto Rilancio per aver incassato la sanatoria dei migranti irregolari, si è sbilanciata proclamando la necessità di una discontinuità:«È evidente che ci vuole un cambiamento». Con il voto dei renziani contro la sfiducia è stato evidente, invece, la scelta della conservazione, facendo prevalere gli equilibri attuali pur di non aprire una crisi che avrebbe pregiudicato le poltrone di un partito che i sondaggi accreditano poco sopra l’1 per cento.
Il bullo di Rignano ci ha abituato alle sue intimidazioni verbali che non trovano mai una consequenzialità pratica. D’altronde molti avevano azzardato, senza rischi di smentite, lo spoiler della trama renziana, anticipando l’esito dell’allineamento al governo pur di non tagliare il ramo su cui la pattuglia di Italia Viva e accovacciata. La credibilità di Renzi si è ulteriormente inficiata e il suo partito rischia di raggiungere livelli nanometrici di consenso.
Il timore che gli elettori ne certifichino l’estinzione politica rappresenta la principale garanzia nel dare continuità al governo Conte e ad una maggioranza impreparata a fronteggiare la crisi pandemica nelle sue conseguenze socio-economche.
Se Renzi avesse avuto una moderata dose di coraggio con la sfiducia a Bonafede avrebbe potuto ricalibrare il suo posizionamento in maniera più efficace, mentre ha preferito campicchiare senza una prospettiva plausibile. E il governo continua a sgovernare come una mucillagine priva di nessi interni, senza forza e futuro.
Andrea Amata, 21 maggio 2020