La diatriba fra il magistrato antimafia Di Matteo e il ministro della Giustizia Bonafede certifica il cortocircuito della politica grillina che non riesce a domare le aspettative che aveva dopato con una narrazione semplicistica che è l’espressione tipica del messaggio dei populismi puerili. Dunque, i 5 stelle sono ostaggio di se stessi e per non confutare il racconto con cui sono ascesi al potere sono obbligati a non emanciparsi dalla grammatica dell’antagonismo. Ma è in atto una nemesi nel MoVimento 5 Stelle che, avendo ossessionato il dibattito con il richiamo alla trasparenza, allo streaming ed altre menate in chiave di self-marketing, è rimasto vittima del retroscena diventato ribalta.
I grillini sin dal loro esordio in politica hanno esibito l’estremismo di un’estetica della superficie che si è rivelata nel percorso di governo un sepolcro imbiancato. L’ipocrisia nell’ostentare l’integrità della loro dottrina ha iniziato a palesarsi appena hanno varcato il sagrato del potere. Sfogliando i capitoli del libro pentastellato possiamo “ammirarne” le capriole in una versione balistica che susciterebbe invidia al più quotato funambolo circense. In Europa si sono consegnati alla coalizione Ursula votando una presidente della Commissione europea che è espressione di quell’austerità teutonica che hanno sempre avversato. Hanno archiviato i vantaggi attribuiti alla democrazia diretta per ripararsi nell’assemblearismo in funzione della sopravvivenza di mandato, alleandosi con il Partito democratico che era stato oggetto di furiose invettive (“il partito di Bibbiano”, così lo apostrofava Gigino Di Maio).
Sono confluiti in un’esperienza di governo in nome della difesa della democrazia contro i pieni poteri richiesti da Matteo Salvini per poi delegarli al premier Conte, che sta gestendo l’emergenza pandemica con editti (dpcm) assunti in solitudine senza il conforto parlamentare. Il Treno ad alta velocità (Tav), il Gasdotto trans-adriatico (Tap) e il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) rappresentano altrettanti capitoli dell’abiura grillina che ci illustrano la profonda mutazione a cui si sono sottoposti con estrema disinvoltura. L’iniziale istinto anticasta si è convertito nel suo opposto, blandendo il potere e i privilegi ad esso connessi. Dalla vituperata alla bramata casta il passo è stato lesto.
Lo scontro tra il Guardasigilli e il consigliere del Csm, per la mancata nomina a capo delle carceri del magistrato antimafia che, in base alle allusioni dello stesso Di Matteo, fu determinata dal dissenso manifestato dai boss mafiosi, evidenzia l’anomalia di un conflitto che non può rimanere esente da conseguenze politiche. Il ministro Bonafede dovrebbe prendere atto del clima di sfiducia che aleggia sulla sua figura e dimettersi per coerenza con lo schema narrativo canonico del suo Movimento che ha sempre elevato il sospetto a indizio di colpevolezza, cavalcando l’emozione pubblica per proclamarsene paladini.
Il maître à penser dei giustizialisti Marco Travaglio, per non scontentare il magistrato antimafia e il suo pupillo Guardasigilli che ne esegue la cultura manettara, ha derubricato la vicenda come un “colossale equivoco”. Se lo stesso equivoco si fosse materializzato in un governo di centrodestra, il Travaglio inquisitore avrebbe impugnato la sua penna viperina per marchiare con lettere di fuoco l’anatema e per arringare in un processo mediatico la giuria popolare affinché emettesse una sommaria e inappellabile sentenza di condanna.
Il miliziano del giustizialismo, con i polsi degli altri, nella querelle istituzionale fra un componente autorevole del Csm e il ministro della Giustizia ha abdicato al tono inquisitorio minimizzando la gravità della disputa, ma ormai la cultura del sospetto, che orienta da sempre il gesto politico dei grillini, avvolgerà anche Bonafede.
Andrea Amata per Il Tempo, 7 maggio 2020