La liturgia del Capodanno televisivo, niente più che una festa di piazza con intenti promozionali, solleva alcune perplessità in ordine al rapporto tra spettacolo e potere. In particolare, posto che il servizio pubblico, l’emittenza di Stato, si pone come articolazione del potere, del governo, come spiegare la persistenza di prodotti inesorabilmente uguali anno dopo anno, regime dopo regime? È quest’ultimo che determina la propaganda televisiva, spettacolare, o il mezzo ormai va per conto suo, macina i governi e dura? Oppure è la conferma, definitiva, angosciante, che la politica è pura finzione, che dietro le polemiche mediatiche rituali si nasconde un blocco unico di potere autorigenerante, gattopardesco?
La liturgia di Capodanno è trita, ritrita e trista nella sua perennità; al massimo cambia il conduttore, ma il resto è l’eterno ritorno dell’uguale tra cantanti, cerimoniale, banalità. Già dall’incipit, “L’anno che verrà”, con quella sigla maledetta che è riuscita a farci odiare il capolavoro di Lucio Dalla, il telecapodanno si pone come mera anticipazione dell’incombente Festival sanremese: stessi protagonisti, stessa aria di festa triste, di regime. Dove arriva la televisione è come la calata dei vandali, degli unni di Attila: niente rimane come prima pur che niente cambi. Ne esce lo stravolgimento catastrofico delle località ospitanti e prigioniere, le logiche dello spettacolino plebeo, le logiche del cerimoniale travolgono tutto, stravolgono tutto nella gratitudine delle istituzioni locali e della stessa plebe, usata come comparsa, come nei kolossal degli anni ’50 ma a sue spese. Luoghi terremotati, piegati alla dittatura di un programma dove, sotto gli occhi di moltitudini imbacuccate, irrigidite dal gelo, danno il meglio di loro cantanti che non sanno cantare, comici che non sanno divertire, e il presentatore che ogni tanto ripete: benvenuto venti venticinque, nella logica idiota del formulario celebrativo di stampo americano.
Ma che volete? Passare una fine d’anno senza gli sculettamenti e l’allegria agghiacciante, in tutti i sensi? Osate forse celebrare la morte dell’anno senza quello che resta dei Ricchi e Poveri impellicciati e imbalsamati, “i prati sono in fiore” e quelli sotto, congelati, che fanno ciao ciao. Festa di piazza con le canzoni di 60 anni fa. Sculettone da calendario, neomelodici napoletani, trapper napoletani, “un gusto dolceamaro tra rossetto e caffé”, ma si possono sentire ste boiate anche a Capodanno, dopo che le hai sentite tutto l’anno? Si possono. Tanto se cambi canale è uguale.
La gara stavolta è tra Liorni, Rai, Reggio, e Panicucci, Mediaset, Catania, ed è epica come la disfida di Barletta. Però la Rai sfodera Malgioglio che sembra Wanna Marchi ma dice il conduttore che senza di lui che mondo sarebbe. Però, questo Malgioglio spaventosamente levigato, ceramicato come un sanitario, improbabile, che rinasce sempre dalle sue ceneri di ceramica, chissà come ha fatto a diventare eterno, circolare come “L’anno che verrà”, ma, a proposito, ecco che lancia in un rantolo la Romina Power, ormai come Aretha Franklin, a parte la voce. Svolazzano pure molti plagi, dalla Electric Light Orchestra ai Queen, perché va bene l’autotune ma l’usato sicuro è parte fondamentale dell’anno circolare che verrà. Cinque minuti prima di Mezzanotte quello dei Ricchi e Poveri in versione Liberace, forse drogatissimo, nel senso breriano di accelerato, di esaltato, prorompe in un guizzo di verità: uno stentorio “teste di cazzo, aprite sto microfono, teste di cazzo”, senza capere che evidentemente il microfono è già aperto, cosa per cui si scusa il ciambellano Liorni che ha sostituito Ama, ma non dovrebbe, è l’unico lampo che da solo vale il prezzo dell’irrigidimento cadaverico, glaciale.
Anche questo, dicono, è servizio pubblico: e ci si coglie l’allusione alle case di riposo e agli ospedali pieni di sventurati. Pubblico senz’altro, servizio poco e per chi ne fruisce in base alle logiche promozionali, di solito il sud assistenziale, quest’anno tocca a Reggio Calabria, ci sono anni in Molise, in Basilicata e anni in Calabria, si presume a seconda degli equilibri politici. “L’anno che verrà ha in sé la maledizione del già vissuto”, è uguale all’anno che è venuto e se n’è andato, uguale a tutti gli anni da qualche decennio in qua, da quando qualcuno in Rai capì che era più redditizio riprendere una festa di piazza organizzata da un paese o una cittadina, destabilizzati dall’invadenza televisiva, che proporre qualcosa di realmente innovativo, curioso o culturalmente intrigante. Per dire il panem et circenses che funziona sempre, che macina ascolti. Ma almeno non lo si chiami servizio pubblico, questo pane raffermo per circenses da museo!
A Reggio la festa di piazza straripanti di moltitudine ripresa dalla televisione di Stato, a Milano, Roma e altrove le zone rosse per impedire l’afflusso ad altre moltitudini giudicate pericolose. E già dicono che vogliono mantenerle a oltranza queste zone rosse di repressione e di paura. Dalla tolleranza illimitata per i balordi all’intolleranza per i normali e i poveracci che si sforzano di rigare dritto e gli confiscano la macchina per una supposta o li stangano se fumano da soli, di notte, in mezzo a un parco. Ma chi ci va a controllarli? Ecco le grandi, misere contraddizioni delle nostre democrazie sempre più negative. Anche se Mattarella dice che bisogna difenderle come argine alle tecnocrazie dei visionari alla Musk. La politica di potere per difendere la democrazia o per stritolarla? La politica residua per opporsi alla finanza o per eseguirne gli ordini col tramite delle istituzioni sovranazionali?
Contraddizioni dentro contraddizioni, ma lascia perdere, vedi come ci danno dentro, per un minuto cadauno, certe ugole di piombo e culetti ricoperti d’oro, e tutti che tremano di freddo ma agli ordini del Liorni aziendale fanno il conto alla rovescia, “dieci… nove… otto…”. Ed è un attimo ritrovarsi nella scena di Fantozzi che celebra l’anno nello scantinato coi tubi del cesso, con il cameriere maldestro che gli versa lo stufato nel colletto della camicia, col maestro Canello che bara sull’orario perché ha un altro impegno. Ecco a cosa son serviti decenni di anni che verranno, sempre uguali e sempre orrendi. A convincerci di essere dei mediocri, dei Fantozzi, ma senza alcuna gioia di vivere, senza più illusioni. Con la prospettiva di restarsene tappati dentro, perché se ti avventuri fuori capace che invece della cucina sull’utilitaria qualche branco di maranza ti scarica addosso una raffica o una coltellata. “L’anno che verrà” diventa così rifugio e liturgia funerea, presagio di sventura, di un altro anno già vissuto senza non viverlo. Altre pandemie organizzate, altre guerre, altre carestie o povertà domestiche, altre parole fasulle o idiote, altri divieti e obblighi e imposizioni, nella spirale autodistruttiva delle nostre democrazie che ormai hanno paura di se stesse, che sanno solo proibire.
__Questo articolo è dedicato a Paolo Benvegnù, amico, poeta, musico eccelso, scomparso ieri. Nessun anno che verrà potrà cancellare la tua arte.__
Max Del Papa, 1° gennaio 2024
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