Pietrangelo Buttafuoco, presidente del Teatro stabile d’Abruzzo all’Aquila, non nasconde l’entusiasmo. «Era tutto fermo dalla scorsa estate, quando avevamo portato in scena La figlia di Iorio, di Gabriele d’Annunzio, nella bellissima versione di Vincenzo Perrotta, con le musiche del maestro Antonio Vasta». E adesso, dopo il nuovo esordio, a inizio maggio, con lo spettacolo di Giulia e Paola Michelini, l’ente diretto dal mitico Giorgio Pasotti ripropone un’altra grande prima nazionale, nell’ambito del Progetto Ionesco: Pandemia. Regia di Giuseppe Dipasquale, già coautore delle opere teatrali di Andrea Camilleri. Protagonisti, Ninni Bruschetta (reduce da Le indagini di Lolita Lobosco) e Federica De Benedittis (Il paradiso delle signore), con l’amichevole partecipazione di Roberto Lipari, volto noto di Striscia. Si parte stasera alle ore 20.
«È uno spettacolo affidato a grandi attori», spiega Buttafuoco, «che nasce dallo studio di un classico: Jeux de massacre di Eugène Ionesco».
Un precedente «pandemico»?
«Proprio così. Attraverso un lavoro scritto negli anni ’70, riproponiamo un dramma che credevamo fosse solo immaginazione e che, invece, abbiamo vissuto davvero. Anche perché il passaggio dalla pandemia alla pantomima è facilissimo…».
A che si riferisce?
«Guardi i corazzieri del Quirinale: ben distanziati, eppure costretti a indossare la mascherina. Siamo alla prosecuzione di Piercamillo Davigo dalle Procure alle strutture sanitarie».
Cioè?
«Da: “Non ci sono innocenti, solo colpevoli non ancora scoperti”, a: “Non ci sono sani, solo malati non ancora scoperti”».
E allora, il teatro torna a svolgere la sua funzione catartica?
«È catarsi pura. Ti metto a disposizione dei fatti di verità, che hai vissuto sulla tua pelle: hai attraversato il fiume di parole, di emozioni, di ansie, di paure, ma non hai mai avuto la possibilità di riavvolgere il nastro per riflettere su ciò che è accaduto».
Cosa pensa sia accaduto?
«Per come ce l’hanno raccontata, a quest’ora dovevamo già essere tutti morti. Ve lo ricordate? Non puoi toccare le buste della spesa, non puoi entrare in casa con le scarpe, non puoi incontrare i congiunti… Evidentemente siamo davvero morti e non ce ne rendiamo conto. Siamo nell’ambito dell’assurdo – perciò ci vuole una mente visionaria come quella di Ionesco».
Dunque, Pandemia è uno sguardo retrospettivo, critico, ironico e cinico, sui lunghi mesi del Covid.
«E sulla passione spasmodica degli italiani per le regole. Siamo risultati positivi alla mansuetudine».
In che senso?
«Abbiamo scoperto che la libertà viene dopo tante cose. Abbiamo rinunciato persino all’eros, alle gioie. Invece di avere paura delle malattie veramente letali, ci siamo infilati in questa nube psichica che ha fatto del virus un totem».
Ne usciremo?
«Adesso, all’emergenza virale è subentrata, silente e non dichiarata, quella psicologica. Io lo so perfettamente che la gente è innamorata di mascherine, distanziamento e altre psicosi».
Però, ieri sera, allo stadio Mapei di Reggio Emilia, abbiamo risentito i boati dei tifosi.
«È vero. Ma temo che il danno sia stato fatto. Ti guardano male se appari troppo disinvolto rispetto agli allarmi pandemici».
Per una città terremotata come L’Aquila, quella del teatro guidato da lei e Pasotti è una doppia ripartenza.
«Ma certo. Una realtà straordinaria, in cui ti colpisce proprio la gioia di vivere».
Sì?
«Dopo un terremoto, si ricomincia. Dopo una guerra, si ricomincia. Persino durante un conflitto non ci si ferma: quando bombardavano Sarajevo, la gente continuava ad andare al ristorante, al teatro, nei cinema. È nell’istinto dell’uomo quello di far sopravanzare, alla morte, l’urgenza di vita».
Perciò, anche stavolta «ce la faremo», per citare uno sfortunato motto di moda lo scorso anno?
«Il punto è che l’emergenza permanente ha creato una casta che ci ha provato gusto: visibilità, denaro, relazioni. È terribile, per costoro, veder finire l’emergenza. È significativo che, nel Cts, non avessero mai pensato di inserire uno psichiatra».
Una scelta deliberata?
«Qualcuno ha assaporato l’irresistibile richiamo del potere. Perché la paura è il collante implacabile che fa impugnare ai pochi la vita di tutti. E intanto, la politica s’è potuta permettere il lusso di non fare una beata mentula».
Perché?
«Noi di teatro conosciamo la famosa battuta di Ettore Petrolini: “A me m’ha rovinato la guerra. Se non c’era la guerra a quest’ora stavo a Londra…”. E così, diranno tutti: “C’è stata la pandemia, altrimenti avremmo realizzato ponti, strade, infrastrutture…”. La pandemia, nel suo essere un “gioco”, è l’elemento straniante attraverso il quale si giustifica il livellamento verso il basso».